Non c’è molta gratitudine attorno a noi. Piuttosto abbonda il suo opposto. Siamo circondati da persone insoddisfatte che pensano di essere sempre in credito con la vita e non ritengono di dovere molto agli altri.
Ma chi è l’ingrato? L’ingrato è colui che dimentica o che, a un certo punto, non riconosce più il bene che gli è stato dato. Il che ci rende tutti, più o meno, ingrati.
Quando è stata l’ultima volta che abbiamo detto: «Sono grato della mia vita, sono grato di quello che ho?» E chi se lo ricorda. E come siamo abili nel riconoscere l’ingratitudine negli altri. Ma quando si tratta di noi, le cose si complicano, perché tendiamo a negare di possedere sentimenti negativi, zone buie, lati oscuri.
Il fatto di non riuscire a riconoscere la propria ingratitudine rende l’ego ipertrofico e ci condanna a una particolare attitudine all’insoddisfazione. Perdiamo la visione d’insieme, non ci basta mai nulla e, senza nemmeno sapere perché, ci ritroviamo a inseguire rovinosi ideali di perfezione. Tuttavia riportare la gratitudine nel nostro modo di pensare e agire è possibile, ma non abbiamo che una strada: la consapevolezza. Volenti o nolenti, tutte le nostre faccende interne irrisolte ce le portiamo dietro nella pratica dello yoga. Compresa l’ingratitudine. E mentre la vita ordinaria per lo più ci distrae dal problema o addirittura lo esalta, lo yoga potrebbe darci una mano a comprenderlo e a superarlo.
Nel raja-yoga l’ingratitudine è considerata uno degli ostacoli all’efficacia della pratica dello yoga. La risoluzione di questi ostacoli passa attraverso la necessità di sviluppare i sentimenti opposti a quelli che infestano costantemente la nostra mente egoica, per ottenere citta prasadanam, la purificazione della mente. Lo yogin è tenuto ad applicarsi intensamente sulla gratitudine, l’amicizia, la compassione, la gioia, il distacco… se vuole superare viksepa, cioè la mente in conflitto, che si manifesta comunemente attraverso la dispersione mentale. La gratitudine dunque rappresenta un elemento essenziale della pratica. Ma come si fa a riconoscerla e poi a svilupparla? Innanzitutto occorre partire da una sincera riflessione sul tipo di atteggiamento che abbiamo nei confronti del nostro corpo e dei nostri desideri legati al corpo.
Lo hatha-yoga è il metodo che usa il corpo fisico come strumento di indagine per armonizzare le dualità e farci raggiungere l’unione con il divino. Ma noi praticanti di hatha-yoga come stiamo usando il corpo fisico durante la pratica? Mettiamoci comodi sul tappetino, respiriamo in silenzio, lontani da ogni distrazione e chiediamoci: perché pratico? Cosa sto chiedendo a questa pratica? Raramente chiediamo di cambiare il nostro modo di pensare o di contattare una qualche forma di trascendenza.
Nella maggior parte dei casi prevale il desiderio di voler modificare il corpo fisico. Usiamo la pratica di āsana per diventare più snelli e tonici, più “in forma”. Ma, il più delle volte, la forma che abbiamo in mente di raggiungere è un ideale estetico generato dai condizionamenti sociali, una forma che non ha niente a che vedere con svarupa, la nostra vera forma, la forma del Sé, che lo yoga ricerca come obiettivo ultimo.
Se stiamo usando la pratica di yoga come strumento per migliorare le parti del nostro corpo che sono oggetto delle nostre critiche e dei nostri, spesso impietosi, giudizi siamo parecchio lontani dalla gratitudine, dall’accettazione e dall’accoglienza. Siamo piuttosto molto condizionati da come vorremmo essere per corrispondere ai canoni definiti dal mondo esterno e dalla terribile dimensione social. Sostanzialmente stiamo cercando di “migliorare” il nostro corpo usando una mente “malata”.
Il che ci riporta alla domanda di prima: chi è l’ingrato? Colui che dimentica. E quando torturiamo il nostro corpo per uniformarlo a uno standard sociale spesso insano, dimentichiamo che questo corpo non è nostro ma ci è stato donato, tramite i nostri genitori, da un’entità divina. Dimentichiamo che il corpo fisico è solo l’involucro esterno, la guaina visibile che contiene e si compenetra con gli altri nostri “corpi” (kośa) invisibili, ma non per questo meno importanti. Che il corpo fisico –annamayakosa – è la risultante di ciò che avviene nelle più profonde dimensioni praniche, psichiche e causali. Dimentichiamo che dedicare tutte le nostre attenzioni esclusivamente al corpo fisico è una strategia che, alla lunga, si rivela perdente, perché le abilità fisiche col tempo si perdono. E l’unica cosa che non si dissolve insieme alla materia è la capacità di espandere la coscienza.
Dimentichiamo che lo yogin è anche un brahmacaryin, cioè un individuo consapevole di appartenere a Brahman, all’assoluto, all’infinito senza tempo. Un individuo capace di fluire serenamente insieme agli eventi della vita e ad accettarne i cambiamenti.
Ma come si fa a uscire da questa vera e propria ossessione per la forma, da questa estenuante tendenza al giudizio e al paragone? Come si fa a vivere nella gratitudine?
Modificando la qualità della mente e la direzione dei pensieri verso una maggiore accoglienza e accettazione di sé, il che non vuol dire lasciarsi andare al fatalismo o alla passività. Sviluppando la chiarezza mentale necessaria a riportare le cose nella giusta prospettiva per potersi dire ogni giorno: sono fortunato, sono in salute, sono vivo, amo e sono amato.
Chi pratica yoga ha la grande opportunità di diventare una persona grata, soddisfatta e serena. La costanza nell’applicare le regole attitudinali del raja-yoga rende lo yogin grato per ogni nuovo giorno che inizia, del respiro che riempie i suoi polmoni, del corpo che lo porta in giro a sperimentare la vita. Così come lo rende grato delle rughe che compaiono sul suo volto e dei problemi che necessitano di essere affrontati. La gratitudine e la piena accettazione di sé si riverberano anche nella pratica di āsana che a un certo punto cessa di essere opportunistica e competitiva e diventa espressione di una mente illuminata dalla consapevolezza.
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Colpa di una semplificazione: i vocalizzi di un famoso sistema di parto non sono il canto classico del Sud dell'India. Che è un metodo difficilissimo da apprendere
Dunque la corretta gestione dello sforzo in āsana passa per la costante consapevolezza, e per la conseguente capacità pratica, di allentare e dosare le tensioni necessarie alla tenuta della posizione, nell’ottica di aprirsi a una dimensione più profonda dell’esistenza.
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