Dove sta andando lo Yoga? Domanda pericolosa, perché qualcuno potrebbe rispondere: «a ramengo». Altri, invece, potrebbero prendersela perché si potrebbero sentirsi presi di mira da una domanda così. La deriva che ha preso questo «metodo» (è una delle possibili traduzioni della parola) è sempre più quella di assecondare un mercato che ha deciso di sfruttare il termine. Diverso è dire «pratico Yoga» o «faccio yoga»; diverso è dire «sono sul sentiero dello Yoga» o «vado in palestra a fare Yoga». Però anche chi insegna il metodo più “sfrenato” e performativo si sentirà di essere “nella tradizione” (accade già), perché questa definizione è quanto di più aleatorio ci possa essere oggi: anche lo Yoga più ginnico ormai ha una lunga tradizione alle spalle.
È innegabile, però, che lo Yoga sia diventato un mostro dal fatturato vorticoso. Il giro di affari è stato calcolato in 120 miliardi di dollari, con 300 milioni di appassionati di cui 6 milioni in Italia. Fino a quando? Il problema è soprattutto lessicale, come accennavo prima. Georg Feurstein e Larry Payne lo chiamano “il grattacielo dello Yoga”, dove chi sta all’ultimo piano non ha idea di cosa faccia e di come insegni a pian terreno. Più che un grattacielo, però, sta diventanto una Torre di Babele con la confusione delle lingue perché oggi non saprei più che Yora pratichi tu, né voi che Yoga insegno e pratico io. Il nome è unico, ma gli indirizzi, gli intenti, gli obiettivi sono diversi. Profondamente diversi.
Potremmo dire che c’è uno Yoga per ciascun insegnante di Yoga? In teoria sì e non sarebbe neppure sbagliato – nel senso che ognuno porta il proprio vissuto – a patto che ciascun insegnante si ponga nell’alveo di una tradizione seria. Ma anche qui il problema esiste: qual è il lignaggio? Basterebbe saperlo, potrebbe pensare qualcuno. Che ingenuità.
Prendiamo per esempio il più semplice (per me) da considerare, il Kriya Yoga. Normalmente siamo portati a pensare che il lignaggio sia uno, al massimo due: Paramahansa Yogananda che ha dato vita alla Self Realization Fellowship dalla cui costola è nata Ananda. Primo errore: si dimentica la linea che discende da un altro ministro uscito dalla Srf, Roy Eugene Davis, che ha dato vita alla sua strada e al Center of Spiritual Awareness (CSA). Finito? Nemmeno per scherzare: l’India pullula di discepoli dei discepoli diretti di Swami Sri Yukteswar, maestro di Yogananda, e di Lahiri Mahasaya, guru di Sri Yukteswar. Non solo: nel sud dell’India esiste un’altra via di Kriya Yoga detta dei Siddha che adotta un metodo differente, ma che si rifà sempre al leggendario Babaji, creatore del metodo di pranayama. E per finire (forse), c’è un altro famoso Swami, anzi due, che portano una differente linea di Kriya Yoga e cioè Swami Sivananda e il suo discepolo Swami Satyananda: Sivananda, infatti, ricevette da Babaji stesso alcune tecniche di Kriya Yoga, di cui solo un paio – che io sappia – sono simili a quelle portate da Yogananda.
Vi siete persi? Ma questo è niente: pensate al terremoto che vi causerei se iniziassi a elencare tutti i tipi di «yoga» inventati negli ultimi anni, dal Doga (lo Yoga col cane) al Soup (con la tavola da surf) agli aperiyoga. Tanto che ormai gli studiosi parlano al plurale, «gli Yoga contemporanei». Ma, mi domando, se tutto è Yoga niente più è Yoga? Un po’ sì, nel senso che secondo la legge del mercato quando il pubblico sarà sazio di fare varianti del Saluto al Sole, la bolla imploderà. E cosa rimarrà? Quale Yoga uscirà dall’alambicco del tempo?
Quello che osservo, anche dopo l’ultimo YogaFestival, uno dei migliori degli ultimi anni, è che sempre più persone, a fronte di “sgambettamenti” di ogni tipo, stanno iniziando a dire: «Ma non si può andare avanti così, dobbiamo tornare alle origini». Cosa significhi questo è difficile saperlo: come dicevo durante un talk proprio a YogaFestival, se dovessimo veramente praticare lo Yoga delle origini, qui a Milano dovremmo metterci il perizoma e vivere su un albero al Parco Lambro e bagnarci nel fiume Lambro inquinato quanto il Gange, ma sacro solo per i monzesi.
Quello che forse sta nascendo, però, è il desiderio di un’inversione di tendenza, una riflessione su un nuovo modo di intendere questo metodo, sullo smettere di pensare alla longevità e alla performance per virare sulla coscienza e la sua espansione. Ne parlavo con Antonio Nuzzo e con Driss Benzouine, due insegnanti europei ai massimi livelli che erano d’accordo con questa riflessione. Lo spero. Cosicché quando dirò, «io seguo la via dello Yoga», sempre meno persone penseranno alle posizioni acrobatiche o al mal di schiena e sempre più capiranno che si tratta di una via di esplorazione interiore che conduce alle porte del Sé. Non vale mille acrobazie un’esperienza così?
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