Iniziamo il nostro viaggio nella cultura e nella storia dell’India antica, attraverso le letture e le parole che definiscono la fisiologia dello yoga e la psicologia della meditazione. Questo percorso seguirà le letterature e le filosofie dell’India antica e classica. Iniziamo questo grande viaggio, cercando di seguire la semplicità del pensiero indiano.
Le Upaniṣad vediche mostrano i primi interrogativi filosofici che saranno la base dell’induismo, dello yoga e del buddhismo, oltre che la base della cultura indiana da un punto di vista antropologico. Le Upaniṣad sono trattati di varia estensione, di varia epoca e di varia forma, alcune in prosa, altre versificate, altre ancora miste di prosa e di strofe, son dedicate alla contemplazione o all’illustrazione delle verità supreme e son dirette a rispondere alle domande pressanti dell’individuo, che si chiede quali siano l’origine e il destino dell’uomo, quale ragione regga le varie vicende dell’esistenza, quale sia il fondamento ultimo dell’universo e della vita.
Trattati di questo tipo e di questo nome furono nell’India sempre composti per le esigenze di sette diverse. Ma le Upaniṣad veramente importanti e tipiche sono poco più d’una dozzina, sono denominate Upanisad antiche e medie oppure vediche, appartengono alle varie scuole che si rifanno alle Samhita vediche e quindi fanno parte della rivelazione, e risalgono a un periodo compreso, con tutta probabilità, tra il 700 e il 300 a. C. Il termine, nell’interpretazione che per lungo tempo ha goduto maggior fortuna e che s’attiene al significato più evidente (upa-nisad = sedersi vicino) sembra alludere al carattere esoterico dell’insegnamento, partecipato dal maestro al discepolo che, convenientemente preparato e disposto, appunto vicino sedeva.
TEORIA DELL’ESSERE E DELLA CAUSALITÀ
Il fine squisitamente soteriologico di questi dialoghi filosofici sviluppa il tema della coscienza da punto di vista ontologico: «Da dove è sorto l’Essere?».
«O caro, al principio questo [universo] era soltanto l’Essere (sat), uno, senza secondo. A questo proposito alcuni dicono: “Al principio questo [universo] era soltanto. Non essere (a-sat), unico, senza secondo. Di poi dal Non essere nacque l’essere”. Ma come, o caro, potrebbe essere così? – soggiunse egli -. Come dal Non essere potrebbe essere sorto l’Essere? Essere soltanto questo [universo] era al principio, o caro, uno, senza secondo». (Chāndogya Upaniṣad VI.2.1)
Con queste parole il maestro upaniṣadico Uddālaka Āruni dà inizio al suo insegnamento al figlio Śvetaketu. La qualità dell’interrogativo in esse contenuto («Come dal Non essere potrebbe essere sorto l’Essere?») e l’uso di termini astratti come sat e asat attestano la presenza, nell’India upaniṣadica, di un pensiero capace di formulare chiaramente problemi di natura filosofica e di assumere posizioni critiche rispetto alla tradizione.
Vediamo come continua l’insegnamento di Uddālaka al figlio. Il tema è quello del rapporto tra l’Essere (il sat) e le creature. Volendo riprodursi, infatti, il sat «emette» il tejas (“calore” e “luminosità”), che a sua volta «emette» l’acqua, la quale poi «emette» il “cibo”. Tejas, acqua e “cibo” sono i tre principi costitutivi grazie ai quali il «Sé vivente» del sat, penetrando in ciascuna delle creature, dà loro «nome e forma», ossia le individua. Nell’uomo poi ciascuno dei tre principi si triplica:
«Il cibo mangiato si divide in tre parti: la parte più grossolana diventa escremento, la mediana carne, la più sottile mente. L’acqua bevuta si divide in tre parti: la parte più grossolana diventa urina, la mediana sangue, la più sottile respiro. Il tejas assorbito si divide in tre parti: la parte più grossolana diventa l’osso [dello scheletro], la mediana midollo, la più sottile parola. Costituita di cibo è la mente, o caro, costituito di acqua è il respiro, costituita di tejas è la parola».
Uddālaka è dunque sostenitore di una visione che potremmo definire naturalistica, secondo la quale non vi è discontinuità tra i principi costitutivi “naturali” e le funzioni mentali («Costituita di cibo è la mente», ecc.). Per provare la sua teoria Uddālaka sottopone il figlio Śvetaketu a una sorta di esperimento: lo fa digiunare per 15 giorni, permettendogli solo di bere l’acqua sufficiente a mantenere vivo il respiro. Il sedicesimo giorno lo invita a recitare i Veda, e Śvetaketu si rende conto che la memoria non lo sorregge. Finalmente dopo aver mangiato, cioè allorquando, secondo la teoria precedente, la terza parte del cibo ingerito si è trasformata in pensiero, Śvetaketu ritorna a ricordare i Veda. Lo sperimentalismo che affiora nella storia ora narrata è un tratto che risulterà riconoscibile in molte posizioni filosofiche indiane.
La continuità tra la dimensione “corporea” e quella “mentale” non sarà affatto negata neppure dalle correnti più “antimaterialistiche”: semmai, in queste ultime, al complesso psico-fisico verrà contrapposta una “coscienza” o, come vedremo, una “coscienzialità pura” totalmente separata dall’elemento psichico e mentale. Questo esempio, quasi scientifico, della continuità dell’Essere nelle creature, sarà la base delle successive speculazioni filosofiche delle teorie della causalità e la base della fisiologia yoga e dell’ayurveda.
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Questo è un po’ il manifesto dello yoga che pratico e che insegno da quasi trent’anni. Lo yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo. La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa. La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento.
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