“Chi controlla il passato controlla il futuro.
Chi controlla il presente controlla il passato.”
«Lo slogan del Partito», G. Orwell, 1984
Viviamo in un’epoca in cui ogni gesto online ha un peso anche se non immediatamente percepito: può essere registrato, analizzato, giudicato. L’era della visibilità totale rischia di diventare un regime di controllo invisibile. L’attacco silenzioso all’università e i social frugati. Nel maggio scorso, il sito Politico ha rivelato un atto poco evidenziato ma significativo dell’amministrazione Trump: l’ordine di sospendere i colloqui per il rilascio dei visti agli studenti stranieri diretti negli Stati Uniti. Il dispaccio, firmato dal Segretario di Stato Marco Rubio, suggerisce un piano più vasto che include la valutazione dei profili social degli aspiranti studenti. L’episodio si inserisce nella più ampia offensiva trumpiana contro l’università, sollevando interrogativi inquietanti: può un post pubblicato anni prima diventare un ostacolo per l’accesso ad un’istituzione accademica? I social, da strumenti di svago, diventano, così, trappole potenziali: tutto ciò che postiamo può essere usato contro di noi.
Il Panopticon digitale: sorveglianza e autocensura
Il filosofo Michel Foucault, in Sorvegliare e punire (1975), descrive il Panopticon, figura architettonica progettata da Bentham, come una struttura in cui il semplice sospetto di essere osservati induce l’autodisciplina. Nel contesto dei social media, è essenziale la logica della sorveglianza: nessuno forza a seguire determinate regole, ma tutti finiscono per farlo, per paura di essere giudicati o esclusi. Basti pensare alla pressione costante per apparire ineccepibili, alla rincorsa dei like e alla paura del giudizio digitale. La sovraesposizione ci spinge a costruire una versione accettabile – se non addirittura perfetta – di noi stessi, rendendoci meno autentici, più prevedibili, più manovrabili.
Gli algoritmi non dimenticano
Come mostrato nella puntata Pandemia digitale del programma Rai Petrolio, che ho fatto vedere in classe, gli algoritmi sono in grado di monitorare ciò che facciamo, ma anche di anticipare le nostre scelte, riducendo progressivamente il margine della nostra autonomia decisionale. In alcuni sfortunati casi, possono diventare veri e propri amplificatori di fragilità. Una ragazza con un disturbo alimentare, per esempio, può trovare facilmente video e gruppi che incoraggiano comportamenti nocivi. Social, motori di ricerca, dispositivi smart e modelli di intelligenza artificiale prevedono e influenzano i nostri gusti. Così, la nostra libertà si assottiglia, stretta tra profilazione e persuasione. Se, poi, alla violazione della nostra intimità operata dagli algoritmi, si aggiunge un controllo governativo volto a selezionare, abbiamo davvero la sensazione di trovarci in una sorta di «Grande Fratello» (quello di Orwell, ndr).
Il pericolo della concentrazione delle informazioni
Il 5 giugno, il Corriere della Sera, ha riportato che a marzo Donald Trump ha emesso un ordine presidenziale passato, anche questo, quasi inosservato: tutte le agenzie federali dovranno unificare i dati raccolti, affidandoli agli analisti della società Palantir, fondata da Peter Thiel, stretto alleato di Musk. Molti esperti temono che questa schedatura elettronica di massa possa provocare abusi, discriminazioni o, all’opposto, perdita di fiducia. Le persone potrebbero, infatti, iniziare a fornire dati alterati o smettere di condividerli del tutto.
Difendere il diritto all’opacità
In un mondo che ci vuole visibili e misurabili, abbiamo il dovere di difendere spazi inaccessibili allo sguardo. Non tutto deve essere condiviso. La privacy non è solo una questione legale, ma etica: è una forma di autodeterminazione. Epicuro, oltre 2300 anni fa, invitava al lathe biōsas – «vivi nascosto» – come strategia per una vita serena, lontana dal clamore. Oggi, questo insegnamento può essere reinterpretato come rivendicazione del diritto a non esporre ogni dettaglio della nostra esistenza. Perché la vera libertà potrebbe consistere nel dare valore proprio a ciò che scegliamo di non mostrare.
Un nuovo umanesimo digitale
Sopravvivere all’eccessiva visibilità significa rifiutare la dittatura della trasparenza a ogni costo. Significa conservare zone di mistero, angoli della nostra identità che non vogliamo siano sottoposti a calcolo o ridotti a merce. In un mondo che ci sorveglia e si lascia sorvegliare, la scelta consapevole di non condividere ogni cosa può essere l’atto più radicale.

Foto di Vilius Kukanauskas da Pixabay (ai generated).
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Questo è un po’ il manifesto dello yoga che pratico e che insegno da quasi trent’anni. Lo yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo. La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa. La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento.
Lavoro con la voce da cinquant’anni. È stata la mia compagna, la mia arma gentile, il mio specchio: la radio, la tv, il canto. Con la voce ho raccontato e ascoltato, ho cercato emozione, ritmo, verità. Ma più la uso, più capisco che la voce non è solo suono: è respiro che si manifesta, corpo che vibra, anima che prende coraggio e decide di farsi sentire. È la forma più diretta di presenza
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