Qualche sera fa una mia allieva mi ha chiesto a bruciapelo: «Ma tu che cosa cerchi veramente?». È stata una domanda che mi ha posto altre domande, e che da allora mi frulla nella testa. Che cosa cerco veramente? Cosa cerchiamo veramente nel praticare tutte le volte che riusciamo a praticare, nel fare seminari, nel leggere libri?
Una parte della risposta riguarda la mia storia, e forse anche la vostra, perché ci sono persone che da quando nascono cercano, ricercano qualcosa, cercano qualcosa dentro di sé, e qualcosa fuori di sé, sono curiosi, sono a caccia di qualcuno che li possa illuminare, sono pronti a credere, e poi in maniera del tutto organica, sono impreparati a essere delusi perché quando si mette sul piedistallo qualcuno e lo si chiama “maestro”, subito dopo si capisce che era un uomo con dei difetti e con delle incongruenze, con delle inconsistenze e delle incoerenze.
Che cosa cerchiamo veramente? Che cosa ci manca veramente? Perché è chiaro che cerchiamo qualcosa che crediamo ci manchi. Swami Anandananda Saraswati al seminario di Biella di cui ho parlato un paio di settimane fa ci ha ricordato che tutto quello che cerchiamo in realtà è dentro di noi. Credo la cosa che mi convince di più nella via tradizionale dello yoga di Swami Satyananda sia proprio questo concetto basilare per la vita di una persona: quello che cerchiamo è già tutto dentro di noi, quindi abbiamo solo bisogno di qualcuno o di alcune persone che ci aiutino ad aprire questa porta segreta e a spalancare delle possibilità.
Molti si ammazzano di posizioni per ore e giorni, ma i grandi maestri ci dicono che lo yoga che più ci serve è il karma yoga, cioè lo yoga che si impara nelle relazioni, nella vita quotidiana, sul lavoro. È imparare a servire con gioia. Ancora Satyananda dice che con il karma yoga si pratica yoga tutto il giorno. «Karma Yoga è una importante tecnica di crescita», afferma. Si tratta di fare, nel senso di servire, «implica azioni altruistiche compiute con consapevolezza». Perché, precisa, nel fare «è l’esperienza interiore a essere importante». L’unico yoga che serve veramente quello che ci consente di navigare tra acque molto agitate, con persone che ti accusano senza motivo, o forse anche a ragione, ma non c’è nessun motivo per accusare nessuno. Si possono giudicare i comportamenti, non le persone. Agire sul fare non sull’essere.
Yoga è un termine che in questi anni ha perso la sua connotazione originale e originaria ed è diventato sinonimo di attività fisica. Mentre è sinonimo di ricerca interiore. Ed è un sinonimo di ricerca interiore per riuscire a relazionarsi nella società in maniera più dolce, onesta, più vicina alla nostra realtà. meno aggressiva e meno avida, in una maniera in cui è possibile essere più vicini allo spirito del creatore e della creazione: e abbiamo elencato i cinque principi yogici, gli Yama. Non ha senso pensare allo yoga come il metodo che ci permette di arrivare a qualcosa di inarrivabile perché questo genera stress. Penso alle persone che hanno figli piccoli e non gli puoi dire «tu la mattina devi praticare 50 minuti asana, meditazione, mantra: questo non è Yoga.
Yoga e dire: «Trova il modo, il tempo adatto a te per cercare di centrarti e di trovare una parte nascosta, intima di te e provare a entrare in contatto con questa parte, a ritrovare una carezza interiore». Questo è quello che consideriamo spiritualità nel sentiero che seguo. Che è un sentiero tantrico e che quindi comporta l’ascolto e l’uso di tutti i sensi che proviamo e usiamo per far sì che questi sensi non diventino più i padroni della nostra vita, ma dei mezzi utili a fissare l’attenzione all’interno di noi. Passare da un’attenzione esterna a noi a un’attenzione all’interno di noi e questo senza coercizione, non lo fai con il verbo dovere di questo, di quell’altro, ma con la possibilità che ti dai di entrare in questo contatto e di accettare quello che trovi, di osservare, di conoscerti non come giudizio ma come creazione, come se osservassimo un fiume o una montagna. Quel fiume quella montagna siamo noi. Questa è la via per il pratiahara, il quinto ramo dell’albero dello Yoga.
Volgere l’attenzione da fuori di noi a dentro di noi. E come facciamo? Questa domanda è il fulcro della pratica. Capite che fondare la pratica con sequenze infinite per poi dedicare 5 minuti alla interiorità, non è Yoga. È divertente, a qualcuno piace e si sente in grande forma, ma lo Yoga della tradizione ci dice che gli asana sono strumenti che servono per allenarci a mantenere la posizione seduta. Lo ha detto Antonio Nuzzo in tutta la mia formazione e lo aveva imparato da Satyananda. Yoga è arrivare al Pratiahara perché quella è la rampa di lancio per qualsiasi altra esperienza. Che non sarà mistica come la intendiamo noi, ma porta a una immersione nella consapevolezza più assoluta.


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