Proporre una pratica di Yoga a persone autistiche o con la Sindrome di Down non è semplice poiché lo Yoga si basa sull’ascolto del corpo, sulla concentrazione, sulla presenza a sé. Quale consapevolezza e posture è possibile proporre a persone che sono totalmente assorbite dai loro automatismi fisici e mentali? Nel contesto di lavoro con la disabilità fisica e mentale, l’approccio tradizionale alle lezioni di Yoga si rivela inefficace perché non arriva a toccare il loro essere. Questa è la mia esperienza.
Sono davanti al gruppo dei nove disabili ospiti della struttura dove insegno. Gli allievi sono qui con me perché hanno espresso interesse alla proposta Yoga. Questo centro diurno dove gli ospiti trascorrono le loro giornate, offre la possibilità di incontri regolari ripetuti ogni settimana e quindi c’è il prezioso strumento della continuità. Mi è stato proposto di insegnare tutte le settimane per l’intero anno scolastico, da ottobre a giugno. Questo aspetto favorisce nell’allievo lo sviluppo di una consuetudine, permette di conoscersi meglio, possiamo dirci tutte le settimane che ci rivedremo la settimana successiva e ciò rassicura gli allievi. La sala di pratica è grande luminosa e ben attrezzata, come del resto tutto il centro che ha spazi curati e di elevata qualità abitativa. Possiamo isolarci, concentrarci, usare voce senza disturbare troppo gli altri ospiti.
Le disabilità degli ospiti sono diverse: sono presenti allievi con la sindrome di Down, paraplegia, emiparesi, epilessia, autismo, e altro; ogni allievo è un caso a sé. Ognuno avrebbe bisogno di un tempo personale, ma nello stesso tempo la loro capacità di attenzione è limitata nella durata e nella qualità. Scelgo quindi di lavorare proponendo una condizione di diversa attraverso l’esempio: lavoro sulle persone, cercando di allungare il loro respiro, e favorire la loro presenza a se stessi. Per fare ciò propongo loro di lavorare con la voce, emettendo un suono nelle sue infinite varietà. Ognuno degli ospiti usa la voce come può: c’è chi sussurra, chi emette un suono solo acuto, chi ripete sempre le stesse parole.
La rigidità è assolutamente dominante, gli allievi non riescono a sperimentare la morbidezza muscolare. Per invitare a questa condizione di morbidezza, provo a utilizzare il canto per tentare l’allungamento e la regolarità respiratoria. Canto melodie semplici, talvolta proposte da loro, ripetute, canticchiate, danzate. Passo da un allievo all’altro abbracciandoli e invitandoli a seguire il mio esempio attraverso il contatto, un corpo morbido che si muove nello spazio canticchiando. Il respiro profondo e regolare è per loro una scoperta, si toccano le varie parti del corpo per provare a percepire il movimento del respiro, in espansione e ritrazione, l’immobilità, il movimento che può essere colto laddove prima tutto taceva. Emettiamo suoni forti e poi suoni sussurrati e poi li invito a ascoltare il suono del silenzio con l’eco dei suoni emessi di cui resta traccia nel corpo. C’è anche un aspetto ludico, giochiamo per alleggerire la fatica necessaria per esplorare zone dimenticate dei loro corpi.
Il disabile spesso accoglie passivamente le proposte dei terapeuti, invece io chiedo la loro partecipazione attiva, e quando un allievo si distrae o si isola, lo richiamo, lo invito a essere partecipe; non è possibile agire direttamente sulla loro capacità di rilassarsi, pertanto deve esserci una curiosità riguardo a questa condizione. Il gruppo non troppo grande, mi aiuta in questo. Gli allievi si sentono accolti, spesso seguono le mie indicazioni e mi capita di chiedere alle persone di aiutare i compagni a superare un ostacolo. Questa convergenza nelle intenzioni del gruppo si rivela utile a creare armonia tra gli allievi che trascorrono le loro giornate negli stessi spazi per anni. In ogni caso resta valida la regola che trasmetto una logica di lavoro, nulla di preparato in anticipo, arrivo alla lezione e colgo i segnali e gli umori del gruppo.
Abbiamo lavorato con il suono di brahmari (il suono dell’ape, ndr) e per far meglio percepire la vibrazione, propongo loro di appoggiare la loro testa sul mio petto mentre pronuncio il suono, invitandoli a fare lo stesso producendo loro stessi il suono. Ho lavorato a turno con tutti, comprese le operatrici per permettere loro di capire che esperienza fanno gli ospiti. L’ esperienza si rivela profonda… Per ognuno il lavoro è diverso, chiedo loro permesso di toccarli, se sono disponibili all’esperienza: E. si oppone spaventata e accetta solo in un secondo momento. S. e M. vogliono ripetere e poi se lo fanno reciprocamente. Insomma abbiamo toccato qualcosa di significativo per loro, la percezione della vibrazione nelle labbra e nel corpo.
Invito alla meditazione: un giorno ho visto L. disponibile e ho colto questa opportunità per lavorare direttamente con lui. L. è raramente sufficientemente aperto alle mie proposte, calato come è nel mondo impenetrabile del suo autismo. Lavoro dapprima con un braccio, lo sollevo e cantando una piccola melodia ripetuta, invito L. a fare esperienza di un braccio rilassato. Il corpo di L. è di consueto estremamente rigido, come disabitato, freddo come se non gli appartenesse. Ma sorprendentemente la mia voce funziona e L. mi permette di lavorare anche con il secondo braccio. Completo il percorso e L. resta immobile, occhi chiusi, in completo silenzio, mani in tasca, restando così seduto per mezz’ora. Una incredibile sorpresa per tutti perché L. vive parlottando tra sé e sé, completamente assorbito nelle sue turbolenze mentali. L. riemerge da questa esperienza disteso e quasi sorride.
La domanda che mi pongo è, ciò che propongo può essere chiamato Yoga? Non seguo i percorsi consueti, ma perseguo la percezione corporea per arrivare a distendere il corpo, esploro con gli ospiti l’allungamento e la stabilità del respiro, invito alla percezione della vibrazione sonora. Penso sia coerente parlare di logica yogica nella più ampia libertà interpretativa.


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