
Antonio Nuzzo, 77 anni, è considerato il padre nobile dello Yoga italiano ed europeo e ormai da decenni insegna una pratica preziosa e fondamentale che purtroppo non si incontra spesso in questa disciplina: l’immobilità in āsana. È un concetto che ha sviluppato nel tempo, memore degli insegnamenti ricevuti dai suoi maestri, André Van Lysebeth, Swami Satchidananda, Swami Satyananda Saraswati e Vimala Thakar. Qualcuno pensa che questa pratica sia una semplificazione dello yoga più dinamico, ma avete mai provato a restare 20 minuti in Viparīta-Karaṇi? Ecco, appunto. Quindi non è un cambiamento di rotta dettato dalla sua età matura, ma una acquisizione antica. Tuttavia, come dicevo, è una pratica che pochi insegnanti perseguono, anche perché – bisogna dirlo con tutta la comprensione del caso – la gente cerca un allenamento fisico nello Yoga e molti insegnano per campare. «Lo capisco», esordisce il maestro Nuzzo, «ma basterebbe che nel tempo, si conducessero progressivamente gli allievi a una nuova esperienza, quella dell’immobilità in āsana. Verso un nuovo obiettivo…». Ci troviamo nella Biblioteca di Villa Era, edificio di fine ‘800 incastonato sulle colline biellesi: sugli scaffali sono catalogati oltre 3 mila libri sullo Yoga, sulle religioni e sulla spiritualità collezionati dagli Anni 50 da Ledanna Duranti Danieli (fondatrice di Eubiotica) e poi dal nipote Franz Rivetti. Siamo ospiti della deliziosa padrona di casa, Silvia Rivetti che, con dedizione e amore, cura e rende vivo questo gioiello prezioso.
Maestro Nuzzo, qual è l’obiettivo dello Yoga?
«L’obiettivo è lo sviluppo della consapevolezza, della coscienza dell’uomo. La coscienza si sviluppa nella presenza coscienziale e quindi l’āsana va considerato uno strumento e non un fine. Allora si comprende il senso dello Yoga: lo Yoga è coscienza».
E come si sviluppa?
«Occorre cambiare le priorità e la modalità di pensiero. Se non si cambiano le priorità, non si cambia neanche il modo di pensare. La priorità fondamentale è: “Voglio arrivare a una coscienza lucida, libera dalle influenze della memoria del mio passato”. Quindi perché la memoria del mio passato possa essere zittita devo applicare gli Yama e Niyama (i grandi principi dello Yoga di Patañjali, ndr) alla mia ricerca. Quando la coscienza dell’uomo si libera attraverso Yama e Niyama raggiunge la lucidità interiore. Questo è il progetto Yoga».
Tu sei uno dei pochi che non considera Yama e Niyama come “comandamenti”…
«No, Yama e Niyama non sono obblighi, né regole morali, ma semplicemente degli “attivatori subliminali” sono una necessità per chi vuole raggiungere una dimensione coscienziale libera dai condizionamenti. Molti pensano che questo lavoro interiore si possa fare in posizione seduta, in meditazione. Ma restare nella posizione meditativa – qualora si potesse raggiungere con facilità, e non è detto che si riesca – è come stare sdraiati nello Yoga Nidrā, immobili in savāsana. Per stimolare la pulsione del pensiero spontaneo e quindi conoscerlo e poterlo vedere, occorre fare delle azioni fisiche. Patañjali chiama questa attività abhyasa, che significa “azione sostenuta”. Si possono conoscere i processi spontanei della mente attraverso un’azione: in āsana i pensieri sono sollecitati. Ma c’è un pericolo: chi di noi facendo un āsana non ha mai desiderato migliorare la propria agilità? Ecco, è proprio il desiderio di migliorare la propria agilità a offuscare la coscienza…».
Tutti abbiamo nella testa uno yoga diverso…
«Diciamo, per capirci, che bisogna capire la differenza che c’è tra Yoga e Bhoga. Bhoga è appagamento nel realizzare un’esperienza di piacere, di godimento. Yoga è una ricerca di silenzio dell’attività spontanea della mente, quella che produce emozioni e sensazioni, processi e sviluppa la consapevolezza dei guṇa che sono le diverse attivazioni della materia. I guṇa sono tamas, rajas e sattva (tamas è l’energia più introversa, rajas quella più estroversa, sattva quella più luminosa, ndr). Chi non è addentro al processo Yoga pensa che, se potesse riuscire a trasformare i guṇa da tamas e rajas in sattva, ha realizzato lo Yoga. Il sattva guṇa non è la realizzazione nello Yoga. Uno stato di benessere ‘sattvico’ è quello che possiamo vivere, per esempio, dopo un bel massaggio: ma chi di noi può pensare che gli effetti di un bel massaggio siano una realizzazione spirituale? Col massaggio noi possiamo raggiungere uno stato di sattva guṇa, proviamo piacere, stiamo bene, ma subito dopo ritorniamo nel ciclo dei guna, tamas, rajas eventualmente ancora sattva e così via. Quindi non concludiamo la ricerca Yoga nel momento in cui trasformiamo tamas e raja in sattva. Questo lo dobbiamo capire bene. Certamente tutti vogliamo arrivare anche per poco a uno stato di equilibrio fra tamas e rajas e quindi entrare in sattva guna. Ma quello è Bhoga non è Yoga. Lo Yoga si realizza nel momento in cui, andando oltre sattva, ci si addentra in un processo che stimola l’unione con il Sé. È questo il percorso».
Anche dopo un intenso movimento fisico si prova un senso di benessere…
«In un’ottica yogica in quel caso si stimola rajas, si attivano tutte le funzioni vitali. Finita la corsa, per esempio, ci si fa una bella doccia, ci si rilassa e si cambia l’energia dei guṇa. Ma cambiare l’energia dei guṇa non è Yoga, è un evento passeggero conoscitivo della nostra natura, si acquisisce la consapevolezza dei processi cui siamo assoggettati. Punto. Quello che uno yogin ricerca è la realizzazione, è l’incontro con il Puruśa (cioè la scintilla divina che abbiamo in noi, il Sé, ndr). È necessario capire che solo l’immobilità consente di sviluppare la coscienza di questo incontro».
Cosa intendi per «coscienza»?
«Citta è il nome che Patañjali dà alla coscienza, è una parte del complesso mentale ed è uno strumento molto elevato che c’è stato offerto, perché è capace di osservare e di lasciarsi influenzare da ciò che osserva. È assoggettato ai condizionamenti sensoriali, quindi i pensieri e le emozioni, le vṛitti, investono citta e questa subisce un’alterazione fenomenica. Ma citta ha la capacità di “vedere” e noi dobbiamo insegnarle a mantenere la capacità di vedere senza venire influenzata da ciò che vede. Quindi, in altre parole, citta deve imparare a diventare quasi il Sé, e nel momento in cui raggiunge lo stato di vairagya (il distacco, ndr) può acquisire uno stato di realizzazione e rimanere impregnata della luce del Puruśa, del Sé. Noi possiamo preparare questa esperienza anche attraverso l’āsana più semplice, possiamo insegnare a citta a entrare in uno stato di vairagya, ovvero in uno stato in cui è libera dall’influenza delle vṛitti e dei fenomeni interni».
E come possiamo aiutare questo processo interiore?
«Solo in un āsana statico possiamo osservare senza rimanere condizionati da un movimento reattivo: più riusciamo a rimanere in una posizione statica e più esercitiamo citta allo stato di vairagya. Solo nel momento in cui ha acquisito questo stato, citta ha l’opportunità di rimanere influenzata dal Puruśa, dall’energia, dalla luce del Puruśa. E in questa esperienza lo yogin svilupperà non solo la sua realizzazione, ma la Conoscenza con la C maiuscola».
Però una pratica si compone di diversi āsana. Tutti statici?
«Lo stato di sattva guṇa dona la capacità di conquistare lo stato di vairagya, però per rendere stabile vairagya, il distacco, bisogna differenziare gli āsana. Che devono essere stabili, sì, è necessario fare delle posture statiche di un minuto, di cinque minuti, di 10 minuti, di un quarto d’ora, di 20 minuti o anche mezz’ora. Più tempo noi riusciamo a stare in āsana e più noi mettiamo alla prova citta. Lo stato di instabilità emotiva, interiore, è derivato dal fatto che citta è troppo influenzata dai pensieri spontanei che prendono la loro ispirazione dalla memoria inconscia e subconscia. Stabilizzando il corpo, stabilizziamo anche citta»
Maestro, qual è la tua pratica quotidiana?
«Inizio in savāsana dove esercito una prima presa di coscienza: sono in uno stato in cui non richiedo al corpo nessuno sforzo, ma inizio a esercitare citta. La coscienza deve imparare a estendere la sua presenza in tutto il corpo, quindi per me la presa di coscienza iniziale è proprio un ricordare a me stesso che citta deve imparare a espandersi, perché nell’espansione della coscienza troverà la sua stabilità e lo stato di vairagya. Quel momento di immobilità e di stabilità mi ispirerà a raccogliere le gambe al petto in pavanamuktāsana e quindi citta, che è stata sensibilizzata dalla prima presa di coscienza, proseguirà in una posizione abbastanza semplice, quella fetale che è nel nostro Dna. Da lì creo una situazione un po’ più difficile, di contrazione. La domanda è: riusciamo in una contrazione richiesta da una posizione a continuare ad avere lo stesso stato, la stessa coscienza così distaccata come quella che abbiamo sperimentato nell’immobilità in savāsana? Se la risposta è “sì”, allora andiamo avanti. E quindi l’immobilità diventa quel territorio attraverso il quale si riesce a creare le condizioni affinché citta possa conquistare quello stato di vairagya».
E quanti āsana fai?
«Non tanti, ne faccio 2-3 che durano 20 minuti ciascuno, ma anche mezz’ora».
Da quanti anni fai questa pratica, cioè quando hai lasciato andare le sequenze di āsana classici?
«All’inizio mi imbarcavo anche in 108 Saluti al Sole (ride), ma poi ho capito che quelle sequenze in realtà sviluppavano una dispersione coscienziale perché l’interiorità pensa solo a creare le condizioni affinché il corpo si muova in modo armonioso e raggiunga la più alta agilità in ogni singola posizione. È vero che il corpo si riscalda, ma nello Yoga che il corpo si riscaldi non ci importa proprio niente. Se la posizione che si assume è stabile e confortevole, è come sedersi su una poltrona. Qualcuno ha mai pensato che per sedersi su una poltrona sia necessario fare esercizi di riscaldamento? In nessun testo tradizionale è scritto che lo Yogin debba conquistare una performance fisica sempre maggiore. Io questa cosa nei testi tradizionali non l’ho mai letta. Dunque, se non è mai stata scritta significa che non è importante. La posizione che il mio corpo mi offre quotidianamente è diversa un giorno dall’altro e io la accolgo con gioia e ringrazio il corpo di avermela offerta e nell’āsana statica raggiungo la passività. Ma se mi accorgo che dopo i primi minuti c’è un disagio, capisco che quella non è la posizione che mi permetterà di stare più a lungo e allora riduco l’intensità, faccio un passo indietro e con quel passo indietro conquisto il mio stato di vairagya. Nel momento in cui conquisto lo stato di vairagya, attraverso il vero Yoga, io sono alla ricerca della libertà di citta, ovvero della mia coscienza».
Tu parli molto quando metti i tuoi allievi in āsana, non li lasci mai soli con loro stessi. Perché?
«Il linguaggio è importante. La staticità da sola potrebbe risvegliare i classici “combattimenti interiori” e dare vita a forme di reazioni mentali che durano mezz’ora. Ma non è questo che bisogna insegnare. Un insegnante dovrebbe sviluppare un linguaggio amorevole, compassionevole, un linguaggio che non istighi alla lotta, al contrasto fra l’ego e il corpo, e indurre così l’allievo a comprendere la propria realtà fisica e accoglierla così com’è. Perché è questo il passaggio fondamentale. Dunque, il linguaggio dell’insegnante denota la sua visione dello yoga. E spesso è violenta. La violenza non è dare un pugno a una persona, le parole possono essere molto più violente, istigare alla violenza interiore con la quale il pensiero vuole piegare il corpo alla sua immaginazione, alla sua volontà. Questa è un’attitudine violenta perché il corpo non va considerato il nostro servitore: il corpo ha una sua vita organica, biochimica, neurologica, mentale noi non possiamo neppure immaginare quante operazioni che esegue ogni millesimo di secondo, tuttavia, quando ci mettiamo sul tappetino per fare yoga, vogliamo insegnare un’infinita di cose al corpo. Invece, se lo lasciamo fare, è il corpo che potrebbe invece insegnarci qualcosa…».



La vera trappola della gratificazione dei sensi è la morbosità, l’attaccamento malsano: la dipendenza è un meccanismo sottile e pervasivo. Che finisce per dominarci. Qual è la soluzione? La «Bhagavad-Gita» ci insegna che il segreto sta nel trasformare il nostro modo di relazionarci al piacere e agli oggetti dei sensi. E trasformare il piacere in un mezzo per connetterci a Krishna...

C'è molta confusione New Age in giro, ma ākāśa è l'etere, uno dei cinque elementi che formano la realtà materiale secondo la cosmogonia Sāṃkhya, non un archivio eterno che concede rivelazioni. È il principio che consente all’universo di manifestarsi e va compreso come un aspetto della realtà materiale, non come un database eterico per tutti i segreti del mondo. Un errore filosofico che apre una via esoterica...

«Imparare a prendersi cura del corpo, sì, ma anche ascoltare il proprio corpo». Il fatto che «la verità per essere vera si deve muovere perché altrimenti è un dogma, è qualcosa che ti blocca e invece di essere in consonanza con la vita ti fa essere in dissonanza». Sono alcuni dei concetti emersi nella festa milanese del Vesak. Che ha fatto emergere il bisogno di guardarsi dentro e ritrovare l'etica della vita e della società. Una capacità che dovrebbe essere assunta dalla via dello Yoga per tornare a essere un percorso di rivelazione interiore e di cambiamento profondo

Ex campione di rugby, docente, imprenditore di se stesso, Luca Tramontin ha incontrato l'onlus che aiuta le bambine indiane a riscattarsi da un destino segnato e si è asciato travolgere dalla bellezza della loro missione laica. E qui ci racconta come l'India sia entrata nel suo cuore e perché

Il nuovo Papa si è insediato e fioccano i paragoni con Francesco. No, non sarà come Francesco. Ma una maggiore rigidità dogmatica non è negativa. Anche perché costringerà chi è critico a rivedere il proprio senso di appartenenza e a comprendere ciò in cui crede o non crede. E in questo senso le Chiese protestanti della Riforma (valdesi, metodisti, luterani, anglicani, ecc.) possono essere luoghi in cui un cristiano aperto intellettualmente può trovare la propria casa. In pace e senza rancori