Basta essere “spirituali” per progredire in un percorso spirituale? È una domanda piuttosto delicata, la cui risposta non implica un giudizio per nessuno. Cercherò di applicare la pratica dell’osservazione, perché comunque un giudizio non aiuta né chi lo fa, né chi lo riceve. Ma la domanda è estremamente interessante.
È abbastanza evidente che chi ha una propensione – perché di questo si tratta – per gli argomenti di spiritualità non può vantare una virtù per il fatto di interessarsene. Ci nasci così. Penso agli artisti che toccano il cielo con la loro capacità di andare oltre la forma, di accarezzare la poesia nella loro espressività. Ma così come non basta conoscere le note o saper disegnare per fare arte, non basta parlarne per compiere un percorso spirituale.
Avete mai assistito a un concerto in cui i musicisti suonano senz’anima? Ecco, potreste dire che quella è arte? No, perché l’arte tocca l’anima e per farlo è necessario mettercela l’anima… Oppure: conoscete la vita maledetta di tantissimi musicisti, da Jimi Hendrix in giù. Loro ci hanno messo l’anima ma questa loro arte straordinaria ha permesso un altrettanto straordinario percorso spirituale? La risposta di molti di loro è «no».
Penso a Carlos Santana che a Woodstock suonò sotto l’influsso dell’Lsd, performance straordinaria, ma fu solo dopo che si liberò della droga e iniziò un percorso di meditazione che la sua arte e la sua vita cambiarono. Oggi dice frasi di questo tipo: «Considero la mia preparazione a un concerto uguale a quella di un chirurgo che, prima di un’operazione, si lava le mani. Poiché la musica scende più in profondità del bisturi, sento che per noi è importante meditare e connetterci all’origine del nostro dono: la guida divina». E ancora: «Quando nel 1969 il mio amico Larry Coryell mi parlò della meditazione, non volli sentirne. Ero come terrorizzato e più interessato a fumarmi un joint e comprarmi stivaletti di pitone. Ora so quel che voglio davvero: disciplina».
Santana è un esempio. Come John Coltrane che solo dopo aver smesso con l’eroina e aver iniziato a meditare ha avuto una vera e propria illuminazione e da lì in avanti la sua spiritualità è schizzata verso l’alto e la sua musica pure. Ma penso anche semplicemente a mio nonno, di cui ho un ricordo, lui pensoso in chiesa, assorto nei suoi dubbi amletici nel tentativo di capire con la razionalità il senso di questa esistenza e del Tutto. No way. No es posible. E qui sta il punto.
Per decenni ho fatto quello che faceva mio nonno: letture, domande su domande, tentativo di sbrogliare le matasse con la ragione e la conoscenza. Penso sia stato un percorso necessario quello, perché senza la conoscenza crediamo a tutte le favole che ci raccontano. Ma a un certo punto il destino mi ha permesso di fare un passo di lato. Un passaggio non in avanti, ma di lato, sì.
Il passaggio alla pratica non è qualcosa di cui vantarsi. Accade e quando accade capisci di avere ricevuto una grazia e che tutto quello che accade dopo non è merito tuo e che quello che puoi fare tu è solo metterci «disciplina» (come Santana) e abbandono. Il resto se arriva, arriva. Così come capisci che quello che puoi insegnare non sono solo le tecniche, per quelle ci sono insegnanti di ginnastica o di respirazione più validi, ma che dipende da quanto tu sperimenti nella tua vita e dalle piccole o grandi scoperte spirituali che vivi.
Se in questo percorso smetti di fumare e diventi vegetariano (come è accaduto a me in modo naturale e inspiegabile), non puoi fartene un vanto; c’è una meravigliosa storia di Yogananda che davanti a una signora che si gonfiava tutta per essere vegetariana da 40 anni, disse alla sua assistente: «La signora ha bisogno di un panino al prosciutto…». Questa battuta straordinaria si può comprendere solo se si è in una via spirituale. Con la testa sembra solo un’inspiegabile boutade.
No, non basta essere spirituali per progredire in un percorso spirituale: occorre praticare. Questo cambia la vita, cambia la coscienza e la percezione di sé e del mondo, cambia il modo di intendere la filosofia, i testi, le acquisizioni. O le cadute che fanno parte del percorso e non sono più dolorose come si potrebbe presumere, semmai più interessanti perché fanno capire molto di sé. Perché il percorso non è moralista come la natura non è moralista.
Praticando si impara. Si impara chi siamo e senza la presunzione di sapere da dove veniamo e dove andiamo. Non è più importante. Perché niente è più importante dell’essere qui e ora, così come il giorno ci concede.

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Questo è un po’ il manifesto dello yoga che pratico e che insegno da quasi trent’anni. Lo yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo. La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa. La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento.
Lavoro con la voce da cinquant’anni. È stata la mia compagna, la mia arma gentile, il mio specchio: la radio, la tv, il canto. Con la voce ho raccontato e ascoltato, ho cercato emozione, ritmo, verità. Ma più la uso, più capisco che la voce non è solo suono: è respiro che si manifesta, corpo che vibra, anima che prende coraggio e decide di farsi sentire. È la forma più diretta di presenza
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