Vi ricordate quando Gianni Minà esordiva dicendo «Eravamo io, Fidel, Alì, Maradona…» e iniziava a raccontare le storie dei suoi incontri leggendari? Nella storia che oggi vi racconto, molto più modestamente «eravamo io, Mario Raffaele Conti e Federica Mara», che decidiamo di creare un gruppo di studio e lo chiamiamo Tryambaka. Perché ci piace il riferimento al “terzo occhio” e la parola si sposa col fatto che siamo un trio. Tre persone diverse, da tre latitudini diverse, con tre approcci diversi, accomunati però dalla stessa formazione, dalla stessa passione per un certo tipo di Yoga.
Durante i nostri incontri a Caprese Michelangelo, per i seminari di Antonio Nuzzo, nasce l’idea: mettiamoci in gioco, portiamo avanti un certo insegnamento, scagliamo la freccia in avanti. Dopo “fiumi d’inchiostro”, cioè viaggi, infinite chat, videochiamate, riunioni zoom, l’idea sboccia e si concretizza. Qual è l’obiettivo? O come si dice oggi, la nostra mission? Diffondere lo yoga tradizionale, cioè lo yoga che si basa sui testi antichi e sulle tradizioni più autorevoli. O almeno provarci. Se nessuno dice che l’imperatore è nudo, la bolgia delle proposte bislacche non potrà che aumentare. Se nessuno smaschera gli impostori, lo yoga va a catafascio. Ci vuole un po’ di coraggio e molta umiltà. E noi quelli ce li mettiamo. Partendo dalle basi, dalla formazione che abbiamo ricevuto. Dai testi, dai libri, dai maestri.
La filosofia ha sempre dispensato consigli e tecniche per la navigatio vitae, suggerimenti per affrontare l’angoscia esistenziale. Perché la vita degli uomini e delle donne, di tutti i tempi, è sempre stata una tempesta, dentro la quale occorre saper navigare, dotandosi degli strumenti giusti per farlo. Patañjali definiva questo fenomeno gunavrtti, il movimento vorticoso degli elementi della terra, che subito diventa mal-de-vivre, perché si ripercuote -come carta carbone – sulla mente di ciascuno, e diventa quel famoso cittavrtti, il turbine del campo della coscienza che il suo Yoga si prefigge di eradicare.
Non è cambiato niente dai tempi di Patañjali, di Socrate, e del Buddha. Né cambierà mai niente, perché la mente dell’uomo funziona, e funzionerà, sempre allo stesso modo. Piuttosto cresce il livello di difficoltà. Se fino al ’900 i demoni dell’uomo che anela alla realizzazione erano l’attaccamento e l’immagine del sé-separata dal Sè, oggi combattiamo contro nemici più infidi. Le fake-news, i clic-bait, le spinte nazionalistiche e individualistiche, l’analfabetismo funzionale, gli algoritmi. La post-democrazia che spoglia le istituzioni e vive di consenso immediato sui social. Tutto questo aumenta la rabbia e la sofferenza dell’individuo. Lo separa sempre di più da se stesso, dagli altri e dall’ambiente. In questo clima sociale diventa sempre più difficile “vedere”, cioè rimanere stabili e lucidi mentalmente, e sentirsi parte di una Realtà interconnessa.
Dato il contesto sembrerebbe una missione impossibile. Ma se ci riflettiamo su un attimo, per i guru dello yoga che tutti pratichiamo – Sivananda, Satyananda, Yogananda… – il contesto non è mai stato rose e fiori. Lo stesso erede di Satyananda – Swami Niranjanananda, classe 1961 – dice che nei primi anni di praticantato mangiava pochissimo e viveva di elemosine. Altro che tappetini e tutine. E il tappetino è sempre la metafora del mondo esterno. Se ci mettiamo fuffa, quando le cose si mettono male nella vita, avremo in mano fuffa.
Ecco perché è necessario, a nostro avviso, nello yoga contemporaneo, ripartire dalle basi: i Veda, le Upanisad – che comprendono la Bhagavad Gītā– e Yogasūtra. E nello Hatha-yoga uscire dall’ossessione per l’estetica della forma e tornare a occuparsi dell’unione fra gli opposti. Per sanare la lacerazione della dualità. Per cogliere con chiarezza quanto è deleterio polarizzarsi. Nella pratica (e nella vita) non più acquisire, chiedere, bramare. Ma ascoltare, togliere, alleggerire.
Ricollegarsi ai testi delle origini, capirne il senso, tentare di ripiantumare quella coltura nel terreno del quotidiano. Cogliere l’archetipo, il simbolo nascosto dietro i fenomeni, le situazioni, le umane vicende. Riscrivere le priorità, riformulare gli obiettivi, alla luce delle parole dei grandi saggi.
A che serve condividere sui social le frasi più famose di Buddha, Thich Nhat Hanh e Yogananda, se poi sul tappetino portiamo la stessa mente egoica e condizionata, la stessa brama di autogratificazione della vita ordinaria? A che serve professarsi pacifisti, se poi nel cuore delle nostre famiglie o coi nostri vicini ci parliamo tramite legali? Time-out. Fermiamoci. Proviamo ad aprire questo terzo occhio. Tryambaka. Proviamo a vivere distinguendo (in un neologismo che ho coniato adesso: vivekando) la realtà dalla Realtà. Il turbo rerum (la sorte altalenante, di cui parlava Seneca) dall’orizzonte ultimo cui tutti siamo destinati.
Su queste basi io, Mario Raffaele e Federica, ci impegniamo a proporvi incontri, seminari e contenuti multimediali secondo i canoni e i testi dello yoga tradizionale. Seguiteci sui canali social per conoscere le nostre iniziative.
Hari Om



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