Le storie delle religioni sono ricche di contraddizioni e non potrebbe essere altrimenti visto che queste organizzazioni sono creazioni umane. Il Buddha non ha fondato il buddhismo e il cristianesimo, com’è noto, lo ha fondato Paolo di Tarso. Per fare due esempi. In questi giorni la figura del Papa di Roma è in primo piano per la scomparsa di Francesco e l’imminente elezione del successore. Lo si chiama «successore di Pietro», ma sul primato pietrino ci sono discordanze in ambito cristiano. In primo luogo perché il capo dell’ecclesia a Gerusalemme non era Pietro, ma Giacomo il Giusto. A giustificare l’istituzione del papato è la famosa frase evangelica: «Tu sei Pietro, e sopra questa roccia io edificherò la mia chiesa e le porte dell’inferno non la potranno vincere. Ed io ti darò le chiavi del regno dei cieli». Per i cattolici la dichiarazione non lascia spazio al dubbio, per le Chiese della Riforma invece sì: in sostanza, esse spiegano che in quella occasione Pietro rappresenta l’uomo e che chiunque riconosce Gesù come il Messia è la roccia dell’assemblea (chiesa) dei credenti.
I teologi sono coloro che interpretano un testo che è stato ampiamente rimaneggiato nei secoli e che è nato (almeno i Vangeli sinottici) sotto l’onda teologica di Paolo di Tarso, cioè l’uomo più lontano dai Dodici apostoli (vedi Galati 2:11-14 e Atti 15:36-41). È evidente che solo la fede può creare una certezza granitica nell’esistenza del papato, così come una diversa fede crea la certezza granitica (da Lutero in poi) dell’illegittimità di questa figura. Fatto sta che il cattolicesimo è un’anomalia mondiale in termini di autorità: non esiste un’altra grande religione che abbia un solo rappresentante con poteri assoluti sui fedeli.
Esiste invece un’altra branca di una religione, il buddhismo tibetano, che ha un capo assoluto, il Dalai Lama, che è anche il “sovrano” in esilio di una nazione che purtroppo non esiste più, il Tibet, appunto. E Tenzin Gyatso è stato a lungo riconosciuto il rappresentante spirituale dei buddhisti tutti, l’uomo che in qualche modo ha incarnato la parola stessa del Buddha. In comune con il papato cattolico ha il fatto che la sua figura ha assunto in sé la doppia valenza spirituale e politica; con il prossimo Dalai Lama le cose si faranno complesse perché – come è già accaduto con altre cariche lamaiste – i cinesi entreranno in competizione con il governo in esilio ed è possibile che avremo due Dalai Lama, uno legittimo erede di Tenzin Gyatso, e uno creato ad hoc dalle autorità di Pechino.
Con il papato la figura del Dalai Lama ha in comune anche l’autorità di vietare o promuovere culti: è recente il divieto del culto di Dorje Shugden, «emanazione del Buddha della Saggezza che aiuta, guida e protegge impartendo benedizioni ai praticanti, aumentando la saggezza ed esaudendo i loro desideri virtuosi». Lui ne ha vietato il culto perché vede in esso dei pericoli “oscuri” (la sua rappresentazione è una divinità terrifica) e si è scatenata una protesta da parte della New Kadampa Tradition, un gruppo che pratica quel culto: l’ultima volta che il Dalai Lama è venuto a Livorno è stato accolto con un coro ininterrotto di «False Dalai Lama» e «Dalai Lama, stop lying», basta bugie. Io c’ero ed è stato abbastanza surreale e inquietante avere questo sottofondo per un’intera giornata.
Insomma, che si tratti di papalina bianca o di berretto giallo (quello dei monaci Gelugpa, la scuola del Dalai Lama), un’autorità assoluta ha le sue criticità. Così come le ha chi non ha un’autorità rappresentativa. Prendiamo le chiese protestanti della Riforma, che non hanno un loro “papa”, semmai, come i Valdesi, un Moderatore regolarmente eletto dall’assemblea di Monte Pellice, che li rappresenta ma che non ha l’allure del “guru”, per intenderci. I luterani hanno i vescovi, così come li hanno gli episcopali e i fratelli anglicani, i quali vantano un Arcivescovo di Canterbury che li unisce. Di tanto in tanto nasce una figura illuminata come Martin Luther King o l’arcivescovo Desmond Tutu che ha la stessa forza di un Papa nell’esprimere idee evengeliche che influenzano la società, ma sono eventi rari. Le chiese ortodosse sono autocefale, cioè ciascuna chiesa (rumena, di Mosca, di Costantinopoli, greca, eccetera…) ha un suo Patriarca che la rappresenta. Le assemblee evangelicali (pentecostali protestanti e predicatori vari come la “guru” di Trump) rappresentano ciascuna se stessa e non hanno un coordinatore. Nel buddhismo, ciascuna tradizione ha i propri guru (come lo è stato Thich Nath Hahn per i buddhisti zen vietnamiti) che si guadagnano autorevolezza, sul campo e non per nascita o elezione. Nell’induismo ci sono svariati guru, alcuni anche chiacchierati, ma l’unico che abbia avuto rilevanza mondiale negli ultimi 100 anni è stato Gandhi e, in parte, Paramahansa Yogananda.
Certo, per un cattolico praticante e per l’opinione pubblica simpatizzante, la figura papale è importante. Lo è anche perché la sua forza è data dalla rappresentanza, dal fatto di essere un capo di Stato e di avere in mano (come nella statua di Pietro che si trova a San Pietro e vedete nella foto) «le chiavi del regno dei cieli». La sua rappresentatività, la sua influenza capillare sui votanti di tutto il mondo, il suo carisma personale, tutto questo fa sì che diventi un faro e un’occasione per i capi di Stato che alla sua ombra possono pensare di rivedere le proprie malefatte e di iniziare a pensare alla Pace, come forse è avvenuto in Vaticano ai funerali dell’ultimo Papa. Per i poveri, be’, per loro la storia è diversa. A chi si chiede chi si continuerà a occuparsi dei poveri dopo Francesco, rispondo così: le donne e gli uomini di buona volontà cattolici, protestanti, ortodossi, sikh, islamici, buddhisti, induisti, atei, così come è sempre stato finora. Il Papa impartisce indicazioni per i suoi seguaci ed è un punto di riferimento per i cattolici in tutto il mondo che si sentono protetti dalla sua figura autorevole. Ma ai poveri continueranno sempre a pensarci coloro che, “col cuore in mano”, come si dice a Milano, riconoscono in ciascun uomo un fratello e una sorella da aiutare.

Comunque il giorno dopo l’elezione di Leone XIV c’è chi alza la testa e auspica l’abolizione del papato. È Robert Ageneau, classe 1938, già direttore della rivista missionaria cattolica Spiritus, che ha recentemente partecipato al libro collettivo Réformer ou abolir la papauté (Karthala, 2024), che sulle pagine di Le Monde sostiene che il papato, nella sua forma attuale, sia obsoleto e in contraddizione con il Vangelo. Auspica una riforma radicale, se non l’abolizione della figura del Papa. Ageneau propone di relativizzare o abolire il ruolo del Papa come autorità suprema, restituire potere deliberativo ai sinodi e concili, ripensare dogmi e regole (come il celibato obbligatorio e l’esclusione delle donne) e rendere la Chiesa più democratica, simile al Consiglio ecumenico delle Chiese (che non include i cattolici). «L’idea di poter abolire il papato è certamente utopica», ammette il teologo ed ex prete che è stato ridotto allo stato laicale per le sue idee progressiste. «Tuttavia, il cristianesimo ha solo duemila anni. Non c’è alcuna ragione per pensare che debba rimanere immutabile nei suoi dogmi e nel suo funzionamento. La Chiesa non si colloca al di fuori della storia umana: come ogni istituzione, non è condannata a restare immobile».

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