Lo yoga è una via d’essere. Siamo tentati, per via dei nostri condizionamenti, di considerarla una via di sapere. Il sapere fa parte del piano fisico, l’Essere appartiene alla via spirituale e la via dell’Essere trasforma quella del sapere.
Si dice che lo yoga sia un mistero, ma questo è vero se lo si avvicina solo con il piano fisico. La via dello yoga è un cammino di un’altra natura, è un’esperienza d’essere che non può essere imparata, ma semplicemente vissuta. È questo che la rende così difficile, ed è importante avere chiaro questo punto sin dall’inizio. La trasmissione di questa esperienza avviene in modo diretto, reale, profondo e silenzioso. Il sistema mentale appartiene al piano fisico e può ripetersi. Sul piano dell’Essere vi è irripetibilità.
La natura di questa esperienza è tale per cui nessuno può farla al posto di un altro: si può copiare una forma, ma non il suo contenuto, quello non può essere che vissuto, ognuno deve partire da sé. L’attitudine mentale diventa quindi al contempo uno scopo e un mezzo, una chiave per avvicinarla pratica e al contempo una chiave per la nostra capacità di vivere. Il ruolo dell’insegnante diventa quindi, quello di creare per l’allievo le condizioni di una libera esperienza. Solo quando un praticante vive l’esperienza al proprio livello, allora qualcosa si iscrive nella memoria profonda: si passa dal capire, al comprendere. Non si torna indietro.
Il fatto di partire da sé rappresenta l’unico modo per sviluppare la coscienza: solo ciò che sono può essere trasformato, non posso trasformare ciò che vorrei che fosse o che penso di essere poiché non esiste. questo è il senso principale dello yoga: devono esistere le condizioni di indipendenza, non di dipendenza. È la qualità della coscienza che diviene, a un certo punto, la causa della rinuncia che conduce all’estinzione dell’ego; è lì che si può fondere con il movimento della vita: si è la vita, si è nel movimento della vita in ogni istante.
Sviluppare la coscienza è la ragion d’essere della pratica. La coscienza è il contrario della dispersione. La pratica dello yoga conduce a essere centrati. Āsana resta l’inizio del percorso. È importante comprendere che col termine Yoga si intende fare riferimento a uno stato interiore, a un modo d’essere, piuttosto che a tecniche o posture del corpo che il praticante debba in qualche modo copiare.Il termine sanscrito «āsana» viene solitamente tradotto con “postura” o “posizione” in realtà significa «posto», «proprio posto», «propria forma». In senso più letterale si riferisce non tanto alla forma esteriore, alla postura intesa come semplice posizione del corpo, ma piuttosto al modo con cui la postura è da noi abitata, vissuta. Nello Yoga, il corpo è parte indissociabile dalla propria presa di coscienza. Di conseguenza possiamo dire che non è il movimento in sé, per quanto gratificante, a liberare, quanto la capacità di ascolto che lo accompagna. Il nostro corpo riflette sempre, in modo tangibile, la nostra organizzazione interiore e le nostre capacità di consapevolezza.
Il movimento e le posture rendono manifesta l’esistenza nel nostro corpo di zone chiare, quelle che leggiamo senza difficoltà, e di zone oscure, che non riusciamo a raggiungere facilmente mediante un’indagine cosciente. Di norma, tendiamo a muoverci e praticare utilizzando prevalentemente le nostre parti chiare, ignorando o utilizzando solo in parte le aree corporali che avvertiamo con fatica o che non arriviamo più a localizzare. Uno dei primi compiti di āsana è dunque quello di rendere evidenti gli effetti della consapevolezza sulla nostra struttura nervosa e muscolare, consentendoci inoltre di osservare come tali effetti si organizzino in modi differenti in relazione al livello di ascolto in atto.
Āsana e Prānāyāma aprono il cammino, preparano alla meditazione (Dhyāna), punto di compimento della pratica. La quale è semplicemente “essere”, nient’altro. È in questo senso che lo yoga classico contemplativo, codificato nel Rāja Yoga consente il difficile capovolgimento dell’attitudine mentale. Non sono le posizioni fatte bene o male, ma il vissuto che ha luogo durante la pratica che crea la condizione per il capovolgimento, per una trasformazione radicale, per la comprensione. E non si tratta solo del corpo, il corpo è un mezzo, non il fine.
Limitarsi al piano fisico non conduce a niente; occorre che la comprensione si prolunghi nella vita di tutti i giorni, nella percezione quotidiana. Per “attitudine mentale” intendo la qualità d’essere della mente, ossia un mentale fluido, libero dai condizionamenti, centrato. non ci interessa fermare la mente. La mente non si può fermare. Perché poi dovremmo fermare la mente? Il problema è il nostro identificarci con il complesso mentale (corpo, mente, emozioni) non sono il loro manifestarsi, ma il nostro essere reattivi a ciò che ci accade, ale emozioni e ai pensieri che ci attraversano il vero problema.
La qualità d’essere della mente è il fondamento del Rāja Yoga, lo yoga dello Yogasutrā di Patanjali. Qui lo yoga diventa la pratica dell’istante presente, lo yoga della relazione con gli altri, con se stessi e con tutti gli eventi della vita. Fin dai primi sutrā Patañjali afferma che per divenire consapevoli dell’Essere occorre controllare il mentale, ma è importante precisare che non si tratta assolutamente di inibire il movimento della mente. Il movimento ha una funzione vitale e la mente è, per definizione, mobile. La caratteristica della coscienza mentale è lo spostamento veloce, superficiale e reattivo. Ciò che va contenuto è la dispersione. Dhārānā è essere centrati e nasce un nuovo campo di coscienza; la coscienza si illumina, cambia la natura e il modo di interpretare le cose e la realtà. In questo modo il mondo si trasforma davanti i nostri occhi, poiché non sono più le nostre speculazioni a essere la realtà.
In queste trasformazioni vi è un ordine: ogni esperienza di cambiamento è la fonte delle trasformazioni successive. Quando l’esperienza d’essere, comincia, invade tutto; le nostre relazioni, i nostri pensieri. Trasforma i limiti intricati e insufficienti della nostra vita, delle nostre azioni, della nostra personalità attuale. La via del sapere è prodigiosa, ma insufficiente, poiché è una via che propone metodi uguali per tutti. Propone manuali, diplomi, fa vivere dell’avere, dell’acquisire, ma non basta. Ci vuole anche la via del cuore. È la via del cuore che apre misteriose vie al sapere. La via dell’Essere non prevede corsi, manuali, insegnante e insegnamento, ma si propone in maniera personale, irripetibile.
Queste osservazioni indicano quale debba essere l’attitudine dell’insegnante. Egli deve avere la capacità di cancellarsi di fronte all’allievo. Indicare una via, essere una guida, non un Maestro. Non vi è superiorità, non vi sono gradi, ogni pratica è nuovo per ognuno di noi. Allievo, maestro, guida si annullano nel silenzio della quiete e la trasmissione del sapere avviene nella risonanza della presenza della quiete.
Il ruolo dell’insegnante è solo quello di aprire la via a una possibile risposta, non di darla, in modo che ciascuno trovi le sue risposte, molto più efficaci. Si tratta di creare dei vuoti in cui ogni allievo possa muoversi e scoprire. L’interesse aumenta attraverso le scoperte che aumentano la fiducia in sé, poiché per scoprire qualcosa è necessario assumersi la responsabilità di esserci in prima persona: bisogna praticare col cuore pieno e la mente vuota!


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