La situazione è di stallo totale, Krishna esorta Arjuna ad alzarsi e combattere, ma Arjuna è bloccato, non se la sente, è in uno stato di ansia soffocante, preso dal panico. È in quel preciso momento che fa un ragionamento semplice, cristallino e convincente che farà da cornice a tutti gli insegnamenti della Bhagavad-gita, specialmente nei primi capitoli.
Preferirei mendicare piuttosto che vivere in questo mondo al prezzo della vita di anime nobili come i miei maestri. Anche se ambiscono ai beni terreni, restano pur sempre i nostri superiori e la loro morte macchierebbe di sangue la nostra felicità. (2.5)
Arjuna vuole lasciare tutto e indossare le vesti dei sadhu, rinuncianti che cercano il contatto con il divino nella solitudine delle grotte e delle foreste. «Ma certo, evviva Arjuna, bravo!», viene da esclamare. Come può una guerra essere giusta? Le primissime parole della Bhagavad-gita, un testo di 700 versi divisi in 18 capitoli, sono: «Dharma-kshetre, kuru-kshetre…».
Kurukshetra è il nome del particolare campo di battaglia che è stato scelto dai due schieramenti, e viene definito anche dharma-kshetra, ovvero luogo (kshetra) del dharma, termine sanscrito complesso e meraviglioso che incontreremo spesso e che si potrebbe tradurre in prima battuta con «ordine cosmico e giustizia». Ordine cosmico e giustizia? Un massacro fratricida?
Sanjaya disse: Dopo aver così parlato, Arjuna, il vincitore del nemico, dice a Krishna: «Govinda, non combatterò», e rimane in silenzio. (2.9)
Ben fatto! Siamo tutti con te Arjuna, hai ragione! Ed eccoci qua, tutti (o quasi tutti) schierati o da una parte o dall’altra, con il solito errore nel cuore e nella mente: giudicare, ritenersi più intelligenti del Creatore, vedere il mondo in bianco e nero, amici e nemici, giusto e sbagliato, ecc.
Ma perché siamo sempre in lotta con qualcuno o qualcosa? Perché è così difficile essere felici nonostante la meraviglia del mondo che abitiamo?
Krishna sorride, per diversi motivi. Sorride perché questo è il dilemma di tutti noi, e se Krishna è Dio chissà quante volte lo ha sentito esprimere, chissà quante vittime ignare ha già mietuto. Un dilemma quotidiano, pressante e sempre presente: combattere o ritirarsi, prendere o lasciare, andare a destra o a sinistra, essere o non essere… in una parola, dualità, coppia di opposti, in sanscrito dvandva.
Sorride anche perché finalmente, dopo tanto tempo, potrà impartire l’insegnamento della Bhagavad-gita e dare inizio a una nuova successione di maestri e discepoli, la guru-parampara, come dirà più esplicitamente all’inizio del quarto capitolo.
Come scrive Bhaktivedanta Swami nel commento al verso 2.10:
«Questo scambio ha luogo apertamente, davanti ai combattenti dei due eserciti, affinché tutti ne traggano beneficio. Gli insegnamenti della Bhagavad-gita non sono riservati a una persona, a una società o a una comunità in particolare, ma si rivolgono a chiunque. Amici o nemici, tutti hanno il diritto di ascoltarli».
È questa la chiave di lettura più importante: amici o nemici non importa, abbiamo tutti la stessa origine: esiste una dimensione in cui la coppia di opposti, dvandva, si armonizza in una sorta di terza versione migliorata in cui la tensione tra i due non si annulla, ma genera qualcosa di superiore e di sublime che si espande senza fine e guarisce l’universo. Si tratta dell’alchimia della Bhakti, termine che si potrebbe tradurre con «Amore» ma che Bhaktivedanta Swami traduce con «Servizio devozionale» a sottolineare la più importante delle equazioni cosmiche: Amare = Servire. Dio, la Persona Suprema, disse:
Sebbene tu dica sagge parole, ti affliggi senza motivo. I saggi non si lamentano né per i vivi né per i morti». (2.11)
Le persone sagge non si lamentano perché sanno qualcosa che Arjuna, in questo momento di grande crisi, si è dimenticato. Belle e sagge le parole ma, i fatti? O, parafrasando con le parole moderne: «Tu parli bene ma razzoli male!». Krishna incalza, vuole interrompere subito la spirale discendente di Arjuna, spirale che nessuno di noi lettori ha ancora decifrato perché, appunto, le parole di Arjuna sembrano a tutti gli effetti “sagge” a tutti noi.
«Mai ci fu un tempo in cui non esistevamo, io, tu e tutti questi re, e mai nessuno di noi cesserà di esistere». (2.12)
Non siamo il corpo, siamo anime eterne, non nate e che non moriranno mai. Amici e nemici sono designazioni legate ai corpi, ma l’anima è da un’altra parte, è fatta di un’altra sostanza. Qui è importante intendersi bene sulle parole: noi non abbiamo un’anima, ma siamo un’anima.
In questo passaggio viene affermata con forza l’individualità eterna di ogni essere che non viene quindi mai persa, evidentemente nemmeno al momento della morte. Krishna è eternamente una persona, con un carattere e dei gusti, e interagisce con infinite anime eterne e personali per espandere il suo e il loro piacere all’infinito, attraverso scambi d’amore di diverso tipo (rasa, in sanscrito).
Questo verso viene spesso citato per contrastare le teorie di chi vorrebbe l’annullamento dell’individualità dopo la liberazione con una sorta di fusione eterna con la sorgente, il Brahman, lo Spirito assoluto e immutabile. Ne parleremo ancora, ma adesso concentriamoci su una domanda: «Perché Krishna imposta il discorso portandolo in questa prospettiva, ricordando cioè ad Arjuna che siamo anime e non corpi materiali? Cosa che tra l’altro Arjuna sapeva benissimo?».
In pratica sta dicendo ad Arjuna: «Ehi, guarda che non siamo qui, su questo campo di battaglia, in mezzo al frastuono di conchiglie, corni e tamburi, per il corpo. Siamo qui per l’anima!». Però abbiamo un corpo, con desideri e passioni, e spesso la tensione tra mondano e divino lacera la personalità, e sembra lasciare solo due alternative: riempirci di sensi di colpa reprimendo i desideri oppure allontanarci dallo spirito immergendoci completamente nella temporaneità delle vicende di questo mondo. Esiste una terza via, ed è anche per questo Krishna sta sorridendo, pronto a rivelarla ad Arjuna.

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Questo è un po’ il manifesto dello yoga che pratico e che insegno da quasi trent’anni. Lo yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo. La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa. La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento.
Lavoro con la voce da cinquant’anni. È stata la mia compagna, la mia arma gentile, il mio specchio: la radio, la tv, il canto. Con la voce ho raccontato e ascoltato, ho cercato emozione, ritmo, verità. Ma più la uso, più capisco che la voce non è solo suono: è respiro che si manifesta, corpo che vibra, anima che prende coraggio e decide di farsi sentire. È la forma più diretta di presenza
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