Dalla Bhagavad-Gita, Cap II verso 40:
“Qui non è sforzo né impedimento. Anche una piccola parte di questa disciplina salva da grande terrore”
Traduzione di Gnoli – BUR 1992.“In questo sforzo non c’è perdita né diminuzione, e un piccolo passo su questa via ci protegge dalla paura più temibile”
Traduzione di Bhaktivedanta Swami Prabhupada – Edizioni Bhaktivedanta 1981.
Nel corso degli anni, sulla base della mia esperienza personale, ho maturato la convinzione che in molti casi la paura ha una causa molto profonda e antica: la paura della morte, il nostro ultimo e ingovernabile distacco. Ho tenuto seminari e incontri sul tema della morte, della paura, degli attacchi di panico, dell’ansia e dello stress cui ho dedicato numerosi approfondimenti. Non erano contesti in cui parlare della mia esperienza personale. Lo posso fare oggi perché ho un’età sufficientemente “grande” per poter parlare liberamente di me, senza timore di giudizi e senza aspettativa di lodi, e di come, grazie allo yoga, ho vinto tre grandi paure: quella di andare in autostrada, quella di volare e quella di nuotare dove non si tocca. Le metto in quest’ordine preciso perché è esattamente l’ordine temporale in cui le ho superate. Qualche anno per la paura di andare in autostrada, un decennio per quella di volare e trentacinque anni per quella di nuotare. Si, trentacinque anni, sono un po’ “tarda” ma molto determinata! Questi tanti anni di impegno dicono meglio di ogni altra cosa che lo yoga non fornisce soluzioni magiche e rapide, occorre tempo, dedizione, impegno costante.
Tornando alle mie paure credo che siano di due tipologie diverse, le prime due hanno anche una componente razionale che mi ha aiutato a governarle (pur avendo paura riuscivo comunque ad andare in autostrada e a prendere un aereo) mentre la paura di affogare veniva dal profondo, da un mondo inconscio e ingovernabile e quando sentivo la gola chiusa, mancare il respiro, il corpo irrigidirsi sapevo che senza salvagente sarei annegata davvero. La bellezza dello yoga è la sua vastità e la sua possibilità di adattarsi a tutto. Sono talmente tante le possibili pratiche e i diversi ambiti di applicazione che anche nel mio caso lo yoga mi è venuto in aiuto in due modi differenti.
Riguardo all’autostrada e al volo sono stati determinanti, per affrontare con serenità il tema della morte, le basi fondanti dello yoga, Yama e Niyama, e la consapevolezza del respiro. Riguardo al nuotare dove non si tocca ho dovuto impegnarmi a lungo su elementi non razionali e sottili attraverso un esercizio costante non solo sul respiro, ma nella ripetizione di un mantra e soprattutto nella pratica di asana dello Yoga Ratna, metodo ideato dalla maestra Gabriella Cella, che dà importanza alla valenza simbolica delle posizioni. Metodo complesso e affascinante perché non solo prevede una grande varietà di forme relate agli elementi, alle divinità, ai miti, ma consente di viverle e di incorporare ciò che esse rappresentano. Cerco di chiarire meglio quello che penso sulla morte e quella che è stata la mia esperienza. La paura della morte è comune a tutti, ed è naturale che sia così. Alcuni scelgono di vivere negando questo triste evento, evitano di parlarne e a volte anche se vivono fasi di malattia terminali ignorano l’evidenza. Non giudico questa scelta, può essere un meccanismo naturale di difesa.
Ma c’è un’altra strada, più impegnativa che è quella di porsi per tempo il problema della precarietà della vita per arrivare preparati a questo ineluttabile appuntamento. Prendere confidenza con il tema del morire consente di apprezzare e assaporare il presente, favorisce il sentimento di gratitudine quotidiana nei confronti della vita. Credo che chi è religioso dovrebbe dalla fede trarre molta serenità per la prospettiva di un mondo altro e della continuità personale, pur attraverso cambiamenti nella forma. Chi è autenticamente religioso, qualsiasi sia il suo credo, non dovrebbe avere paura della morte. Io sono atea, profondamente atea dall’età di 5 anni quando è morta mia mamma. L’immagine del suo funerale e lo strazio di quel momento mi hanno fatto chiudere per sempre con la religione e la Chiesa. È dallo yoga che ho trovato la serenità sufficiente non solo per accettare la mia precarietà, ma per dare un senso più ampio e generoso alla mia vita individuale. Yama e Niyama, le basi fondanti dello yoga danno indicazioni molto interessanti, in particolare per favorire l’attitudine al distacco, alla capacità di liberarci dall’accumulo di cose e dall’attaccamento alle persone. Ishvara Pranidhana che può essere tradotto come abbandono al divino per me ha rappresentato l’esercizio più impegnativo per abbandonarmi alla vita senza opporre resistenza, quella capacità che era innata nel mio Guru, mia suocera Iolanda. Per abbandonarsi alla vita occorre sapersi liberare dagli orpelli e soprattutto affidarsi.
Quel senso importantissimo dell’affidarsi (che è avere fede, seppur in modo laico) che mi ha permesso di entrare per sette giorni senza paura nel deserto dell’Oman. Nell’istante in cui lasciavo il villaggio ed entravo nel deserto ho capito che non avevo più paura, che mi affidavo, mi affidavo alla guida, certo, ma soprattutto mi affidavo senza riserve a un tempo sospeso dai contatti umani, lontanissima e irraggiungibile da tutti. Mi affidavo alla vita in un contesto che non potevo controllare. Con l’attenzione al respiro ho trovato un’altra grande risorsa. Con la respirazione profonda e completa si può percepire l’equilibrio perfetto delle polarità, fra l’inspiro che è il primo atto della vita e l’espiro che è l’ultimo atto prima del morire. Si entra in armonia con il gioco degli opposti, fra l’inspiro che è attività, l’espiro quiete, fra la forza e l’abbandono, il prendere e il donare, il nascere e il morire. Ascoltare il ritmo del respiro che risuona dentro di noi significa percepire il ritmo dello stesso respiro che attraversa tutti gli esseri viventi, lo stesso suono e lo stesso ritmo dell’universo, la consapevolezza profonda di essere parte di un tutto che ha un suo corso indipendentemente dalla nostra piccola individualità. Mi ha dato serenità sentire che la mia ultima esalazione entrerà nello spazio circostante, passerà in altre narici e in altri esseri viventi e che continuerà indipendentemente da me il grande gioco della vita. Detto questo so anche che quando arriverà il mio momento, nel silenzio e nella solitudine dovrò come tutti affrontare una grande prova. E ancora parlando di pranayama, la pratica del Kumbhaka, la sospensione, l’interruzione volontaria del flusso dell’aria, abitua al vuoto, un vuoto che è centrale nello yoga e strettamente connesso al superamento della paura del nostro ultimo volo. Essere “vuoti” non avere più sospesi con la vita, aiuta ad acquisire un gran senso di pace, di libertà e di leggerezza, la leggerezza che oggi tanto mi piace quando l’aereo si alza e lascia la terra per entrare nell’aria.
Per il nuoto è stato tutto diverso dal superare la paura dell’autostrada, ovvero quello che mi poteva succedere sulla terra, e del volo, quello che mi poteva succedere nell’aria. Sicuramente aver lavorato sulla paura della morte è stato utile, ma non è bastato. Nei lunghissimi anni di allenamento ho praticato con assiduità alcune posizioni dello yoga Ratna , proprio quelle posizioni che non a caso, avevo sempre trovato faticose, ostiche e poco gradevoli. Preferisco non raccontare quali erano gli asana: si tratta di un percorso e di un sentire molto personale. Le diverse forme hanno echi diversi per ciascuno di noi. Ho dovuto cambiare orizzonte, per ritrovare il linguaggio antico del corpo, un linguaggio dimenticato, ma che consente di far affiorare vissuti, dinamiche, conflitti e emozioni non trasmissibili a parole. Non è stato indolore, non è stato facile perseverare. Fondamentale accettare le ricadute e dalle cadute ripartire. Man mano che andavo avanti la pratica dello yoga diventava una ricerca per ricostruire pezzi importanti di me, per tendere un ponte fra la mia infanzia e l’età adulta. Oltre a ciò ogni volta che ero al mare mi esercitavo pur nuotando con il mio corpetto. Esercizi di respiro e ripetizione del mantra. Tante volte pensavo di potermi lanciare senza giubbotto (guardare i pesci mi è sempre piaciuto tanto, direi da morire! per cui mi ero comprata un bel giubbotto di salvataggio fosforescente molto comodo per nuotare).
In due occasioni ho creduto di essere pronta a lasciare la sicurezza del corpetto, in due luoghi dove il mare era bellissimo. Poi la magia è avvenuta a Karpathos, uno scenario mozzafiato un mare calmo e pieno di pesci. Mio marito chiacchierava con due amici in riva al mare, io ho capito che potevo osare ho lasciato il corpetto sulla sabbia e mi sono buttata nuotando verso il largo mentre i tre attoniti e increduli scattavano pronti a venire in mio aiuto. È inesprimibile quello che ho provato, una gioia immensa un profondo senso di libertà e di pace, non importava il tempo che mi era costato, nuotavo e piangevo dalla gioia. Anche ora, scrivendo, riaffiora quella emozione profonda. Forse ci sono altri modi per raggiungere gli stessi risultati, anche vie più brevi. È giusto che ciascuno trovi ciò che è consono per sé. La cosa più bella e importante per me, ed è il fascino dello yoga, è quello di aver fatto tutto da sola, con l’aiuto essenziale del corpo e del respiro, questi due preziosi e spesso trascurati compagni di viaggio.


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