Chi mi conosce, conosce anche la mia idiosincrasia nei confronti dei guru. Il guru è necessario nella vita di una persona, senza maestri (perché questo significa guru, «colui che toglie il velo dell’ignoranza», in italiano «maestro») non si procede in nessun campo. Ho avuto tanti maestri di giornalismo, di photoediting, di Tai Chi, di musica, di meditazione, di yoga. Il mio maestro di Yoga, è Antonio Nuzzo e il guru di questa tradizione è Swami Satyananda, e in questa tradizione seguo l’itaiano Swami Anandananda Saraswati. E poi c’è Paramahansa Yogananda, un discorso a parte, con lui ho un rapporto personalissimo, è l’uomo che mi ha preso e portato nello Yoga e me lo sento vicino. Anche se fosse solo immaginazione, funziona e non c’è altro da dire.
Quando uno termina la formazione di Yoga – io ho avuto la fortuna di farne una seria durata più di 4 anni con, tra gli altri, Antonio Nuzzo, uno psicologo come Willy Van Lysebeth e un indologo come il professor Gianni Pellegrini – non si è terminato di studiare. Anzi, lì si comincia, si inizia a comprendere pian piano quello che faticosamente si è studiato, le parole sanscrite, i significati reconditi che entrano nella pratica, i concetti filosofici più complessi. E più si pratica, più si avanza nella conoscenza, e più si capisce di essere perennemente «sadhaka», allievo, praticante, principiante. Lo diceva anche un gigante dello Yoga come Swami Satyananda Saraswati, che per tutta la vita si è sentito allievo del suo guru, un santo come Swami Sivananda Saraswati.
Così dal momento in cui uno si “forma”, non smette più di aggiornarsi. La conoscenza e la vicinanza col maestro cambia nel tempo, perché tu cresci e comprendi che la devozione è inutile in certi casi e che è meglio considerare gli uomini e le donne come tali, senza metterli sul piedistallo. La tradizione cui appartengo non ha templi e il rispetto che si deve ai maestri non contempla un processo di devozione. Questo è estremamente liberatorio perché il rispetto e la devozione sono due colori della stessa nuance, ma ad alcuni si confà un tono e ad altri un altro, è una questione caratteriale e di esperienza. Per quanto mi riguarda penso che se non metto qualcuno sul piedistallo non rischio di doverlo poi “abbattere”, di rimanerne deluso, perché ogni uomo venuto su questa terra non è Dio, anche se qualcuno lo ha definito tale.
Tutti noi abbiamo il divino dentro di noi, in qualcuno questo divino emerge di più e sommato a una spiccata intelligenza, “vola” sopra le menti di tutti. Qualcun altro è solo furbo e le cronache e i documentari lo hanno sbugiardato, su Netflix ne esistono un paio agghiaccianti. In generale se si mantiene un atteggiamento equanime si resta nello Yoga (cfr. Bhagavad-Gita) e si evitano tonfi inutili. All’inizio di ogni mia lezione invito gli allievi a ringraziare tutti coloro che sono stati loro maestri nella vita, compresi coloro che ci hanno fatto del male che, con il dolore che ci hanno procurato, ci hanno insegnato molto di noi.
I maestri sono fondamentali nella nostra vita e mantenere il contatto con chi abbiamo prescelto, è prezioso per proseguire nel nostro percorso. Lo percepisco chiaramente ogni volta in cui incontro i miei colleghi di corso di formazione con cui confrontiamo i nostri percorsi e questo crea una corrente di pensieri e di energia bellissime. La scorsa settimana è accaduto a una cena in cui c’era anche il mio maestro e scambiare alcune idee e un abbraccio con lui ha avuto un effetto sulla mia consapevolezza. Upanisad è quel testo della tradizione che significa «ai piedi del maestro». Le Upanisad sono tantissime e sono tra i testi fondanti dello Yoga perché ne accolgono la parte più misterica, intima.
È possibile porsi idealmente ai piedi del maestro senza doverlo venerare? Sì, è possibile. Il fatto stesso di considerare qualcuno un maestro fa scattare un sentimento di umiltà che non è necessario si esprima in ossequi: quando si prova ammirazione e gratitudine, il nostro corpo lo esprime in modo naturale e un maestro lo percepisce. E se anch’egli si considera un «sadhaka» alla maniera di Satyananda, gli eviteremo un inutile imbarazzo se non dimostreremo venerazione. Per noi il sentimento personale ci pone nella condizione di recepire gli insegnamenti senza per forza dover mettere qualcuno su un piedistallo in cui è pericoloso essere collocati per sé e per gli altri.
Lo so che i grandi guru del passato hanno agito in modo diverso, ma erano indiani vissuti agli inizi o nella metà del secolo scorso, in una società fortemente paternalistica in cui il “bon ton” era – e in certi casi è ancora – questoa. Una via spirituale si adatta ai modi e ai caratteri del Paese in cui attecchisce, quella dello Yoga è diventata “da palestra” nel peggiore dei casi, ma nel migliore può restare laica, a disposizione di chiunque senza richieste di devozioni utili soltanto all’ego proprio («il mio guru» è un termine fortemente individualista e narcisista) e altrui.
Se c’è una modernità possibile nel modo di intendere lo Yoga oggi, sta proprio in un atteggiamento più maturo nel considerare guru, maestri e insegnanti. Da un lato c’è un patto che si crea, nel quale lui ti insegna e tu gli fai da specchio. Dall’altro l’insegnante non ha senso che assuma tratti da guru perché metterebbero in imbarazzo gli allievi, mentre gli allievi possono trattarlo con gioviale rispetto evitando imbarazzanti “sceneggiate” fuori luogo: siamo nel 2024 in Occidente e scimmiottare usi e costumi altrui non ha molto senso. «Verità» è uno dei principi dello Yoga e mantenere un atteggiamento autentico può servire sia all’aspirante maestro sia all’aspirante allievo. Si può “venerare” chiunque senza mettersi in mostra, basta un sorriso carico di gioia e di amore. Non è forse questo il modo più consono per mettersi ai piedi del maestro e scrivere un nuovo capitolo di Upanisad moderne?
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