Partecipare ad attività sociali come visitare amici, partecipare a eventi o fare volontariato può aiutare a prevenire o ritardare la demenza. Lo sostiene lo studio pubblicato su Alzheimer’s & Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association e condotto su 1.923 anziani senza demenza (età media 80 anni) seguiti per diversi anni nell’ambito del Rush Memory and Aging Project.
Secondo la ricerca le persone più attive socialmente hanno un rischio inferiore del 38% di sviluppare demenza e del 21% di subire un lieve deterioramento cognitivo rispetto a quelle meno attive. Gli anziani meno attivi socialmente hanno invece sviluppato demenza in media cinque anni prima rispetto a quelli più socialmente impegnati. Questo ritardo potrebbe portare a tre anni di vita in più e – tra l’altro – a una riduzione del 40% dei costi sanitari legati alla demenza.
Ma com’è possibile? I ricercatori pensano che l’attività sociale potrebbe stimolare le reti neurali attraverso interazioni complesse, aiutando a mantenere il cervello più resistente ai danni dell’età.
Il Rush Memory and Aging Project (MAP) è uno studio longitudinale condotto dal Rush University Medical Center di Chicago, progettato per esaminare i fattori che influenzano il declino cognitivo e lo sviluppo della demenza negli anziani. Le caratteristiche principali del progetto che è stato avviato nel 1997 sono studiare il processo di invecchiamento cerebrale e i fattori di rischio per la demenza, tra cui il morbo di Alzheimer.

Che cosa scateni l’Alzheimer è argomento di diversi ipotesi. L’ultima ricerca è ricca di interesse e potrebbe dare una spiegazione: uno studio condotto dall’Istituto di Nanotecnologia del CNR, in collaborazione con l’ESRF di Grenoble e l’IRCCS Mario Negri di Milano, ha osservato le alterazioni strutturali e morfologiche causate dall’Alzheimer nell’intestino di modelli animali.
Lo studio, pubblicato su Science Advances, ha utilizzato una tecnica innovativa di tomografia a raggi X a contrasto di fase (Xpct) presso l’European Synchrotron Radiation Facility, con cui ha ottenuto immagini tridimensionali dell’intestino con una risoluzione senza precedenti. Questa nitidezza ha permesso di osservare dettagli morfologici mai visti prima, rivelando alterazioni strutturali e cellulari legate all’Alzheimer.
La scoperta è significativa perché evidenzia, per la prima volta, un legame diretto tra la malattia neurodegenerativa e specifiche modifiche morfologiche intestinali. «La ricerca si concentra sull’asse intestino-cervello, un sistema di comunicazione bidirezionale tra questi due organi», spiega Alessia Cedola ricercatrice Cnr-Nanotec tra gli autori del lavoro. Ebbene, lo studio evidenzia il ruolo centrale dell’asse intestino-cervello nell’Alzheimer, sottolineando come la disfunzione di questo sistema possa contribuire alla malattia. Il microbiota intestinale, infatti, è fondamentale in questo processo: uno squilibrio nella sua composizione (disbiosi) può generare metaboliti tossici, favorire l’infiammazione e compromettere la comunicazione tra intestino e cervello.
Lo studio è ricco di fascino per chi si occupa di arti orientali perché ancora una volta dimostra una connessione profonda tra il cervello propriamente detto e l’intestino che viene anche chiamato il “secondo cervello” perché possiede un complesso sistema nervoso autonomo, noto come sistema nervoso enterico (SNE), composto da milioni di neuroni che regolano le funzioni intestinali indipendentemente dal cervello centrale. Questo sistema è strettamente connesso al cervello vero e proprio attraverso l’asse intestino-cervello, una rete di comunicazione bidirezionale che coinvolge il sistema nervoso, immunitario ed endocrino. Un elemento chiave di questa connessione è il microbiota intestinale, l’insieme di microrganismi che abitano l’intestino. Uno squilibrio nella sua composizione (disbiosi) può influenzare il sistema nervoso centrale, contribuendo a disturbi neurologici come ansia, depressione, Parkinson e, appunto, l’Alzheimer.

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