«Finora ti ho esposto la conoscenza col metodo analitico del samkhya.
Adesso lascia che te la presenti in termini di azione disinteressata.
Quando agirai in questo spirito [buddhi-yoga], o figlio di Pritha, ti libererai dalle catene dell’azione». (Bhagavad-Gita 2.39)
Ti riporto qui la prima parte della spiegazione di Bhaktivedanta Swami Prabhupada a questo specifico verso:
«Secondo il dizionario vedico Nirukti, la parola samkhya significa letteralmente “ciò che descrive le cose nei particolari” e si riferisce alla filosofia che descrive la vera natura dell’anima. Il termine yoga, invece, implica il controllo dei sensi. Il rifiuto di Arjuna di combattere si fonda in realtà sul desiderio di soddisfare i sensi. Trascurando il proprio dovere, egli vuole ritirarsi dalla lotta perché pensa di essere più felice risparmiando i parenti che godendo di un regno dopo aver ucciso i fratelli e i cugini, i figli di Dhritarashtra.
In entrambi i casi le motivazioni sono materiali: sia la felicità della vittoria sia quella di vedere salva la sua famiglia rappresentano un interesse personale a scapito della saggezza e del dovere. Krishna vuole dunque mostrargli che uccidendo il corpo di suo nonno non distruggerà la sua anima. Tutti gli esseri, compreso il Signore, possiedono un’individualità eterna: erano individui nel passato, lo sono nel presente e lo saranno nel futuro. Siamo eternamente anime distinte; passando da un corpo all’altro non facciamo che cambiare involucro, ma anche dopo esserci liberati dal corpo continuiamo a mantenere la nostra individualità.
Il Signore ha dunque esposto con chiarezza la scienza analitica dell’anima e quella del corpo».
Risulta qui chiarissimo, quindi, che per azione disinteressata non si intende azione compiuta in modo svogliato o menefreghista, ma si intende un’azione che non ha uno scopo egoistico di mera soddisfazione dei sensi, bensì ha uno scopo superiore, divino. Il termine Yoga è un altro termine importantissimo da comprendere bene se vogliamo veramente cogliere l’essenza della Bhagavad-Gita. Bhaktivedanta Swami dice che ha a che fare con il controllo dei sensi, ossia con l’essere liberi dai condizionamenti e dalle dipendenze sensoriali.
I sensi non si possono soddisfare mai fino in fondo, sono un pozzo senza fine: lo sappiamo fin da piccoli. Quel regalo che abbiamo tanto desiderato e atteso, quando è arrivato, o ci ha deluso subito, o ci ha stufato dopo pochi giorni. Vero o no?
Pensare di raggiungere la felicità soddisfacendo i sensi materiali è come cercare di spegnere un incendio gettandoci sopra della benzina: forse all’inizio la grande quantità di benzina che gettiamo sembrerà diminuire temporaneamente le fiamme, ma subito dopo l’incendio divamperà ancora più di prima. Perciò la persona saggia si dedica allo Yoga, al controllo dei sensi, e regola così con saggezza, attraverso l’intelligenza spirituale (in sanscrito buddhi), le richieste incessanti dei sensi.
«Hai diritto di agire, ma non di godere dei frutti dell’azione. Non essere mai motivato dai frutti dell’azione e non attaccarti all’inazione. (2.47)
Agisci con animo imparziale, o Arjuna, distaccato dal successo e dal fallimento. Tale equanimità si chiama yoga». (2.48)
Caspita, sembra proprio che Krishna ci voglia schiavizzare: lavorare senza godere dei frutti del proprio lavoro. E invece qui è nascosta la chiave della più grande felicità.
Per capirlo bisogna fare attenzione alle parole, infatti «non avere il diritto di godere i frutti» non significa che non si godono mai, o che ne veniamo sempre privati. Significa semplicemente che non si dovrebbero coltivare o avanzare pretese, così da non essere né delusi né frustrati. Si tratta proprio di una modalità di agire, non per il risultato, non per il tornaconto personale, ma perché quel tipo di azione fatta in un certo modo in quel preciso istante è l’offerta migliore che possiamo fare. Migliore per l’ambiente, migliore per gli animali e le piante, migliore per familiari, parenti e amici e per tutti gli abitanti del pianeta. Migliore, in ultima analisi, per tutti e per noi.
Non importa qual è la previsione di guadagno o perdita, quello che importa è che sia un’azione in linea con il dharma: quest’azione viene considerata Yoga, che Bhaktivedanta Swami traduce «servizio devozionale», perché Yoga è azione, e nel suo stato più puro lo Yoga diventa offerta di Amore per Dio, Bhakti Yoga.
«La persona impegnata nel servizio devozionale [buddhi-yukto] si libera dalle conseguenze buone e cattive dell’azione in questa vita stessa.
Sforzati dunque di apprendere lo yoga, l’arte dell’agire». (2.50)
Lo Yoga è dunque anche l’arte dell’agire, e quest’arte comprende la capacità di non considerare nostri i frutti dell’azione. Se agiamo in questa consapevolezza siamo sempre in equilibrio, sempre in pace, e le nostre azioni non generano più legami e successive reazioni, né buone né cattive. Già, anche le reazioni buone alle nostre azioni ci legano a questo mondo, generando, in ultima istanza, altra sofferenza. Questo tipo di azioni non ci permettono di essere veramente liberi. Se facciamo buone azioni aspettandoci qualcosa di positivo in cambio, avremo sì il nostro risultato atteso (anche se probabilmente non come avremmo voluto), ma sarà foriero di ulteriori reazioni a catena e condizionamenti.
Buddhi-yukto letteralmente significa «con l’intelligenza connessa», l’intelligenza illuminata dallo spirito, dal divino, che è quindi in grado di discriminare tra ciò che è materiale, cioè che lega e condiziona, e ciò che è spirituale, cioè ciò che libera e rende felici. Bada bene, qui con materiale non si intende la materia come sostanza, ma la concezione materiale, cioè l’idea che ogni cosa sia a nostra disposizione per il nostro piacere sensoriale egoistico: non è vietato godersi la vita, ma è importante farlo con grande consapevolezza. Consapevolezza che ogni volta che «prendiamo qualcosa per noi», in senso generale, quel prendere altera o potrebbe alterare degli equilibri, e quindi, come esseri consapevoli e connessi al divino, facciamo di tutto affinché il prendere sia sempre di molto inferiore al dare. Sembra un’equazione difficile da far quadrare, ma è proprio questo che intende Krishna quando dice:
«Assorti nel servire il Signore con devozione, i grandi e saggi devoti rinunciano, in questo mondo, ai frutti delle loro azioni.
Si liberano così dal ciclo di nascita e morte, e raggiungono una condizione esente da ogni sofferenza [tornando a Dio]». (2.51)
E se anche tu stai pensando: «Ma allora, dovrei lavorare senza pretendere di avere uno stipendio in cambio?». Beh, non è proprio questo il senso, ma è una domanda che merita un approfondimento a parte, nel prossimo capitolo.


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