Tre storie tra tante possibili, che testimoniano come la musica sia il linguaggio di un’altra dimensione corporea: Beethoven, Gould e la Franklin
Ludwig Van verso i 32 anni aveva un udito ormai compromesso, che sarebbe scomparso totalmente dopo i 40 anni. La sua memora musicale accumulata sino a quel periodo lo sostenne per tutta la vita, sopperendo con la mente all’incedere fantasmagorico dell’imponente orchestrazione immaginata.
Utilizzava strumenti di supporto come il “timpano”, un apparecchio acustico primitivo, per cercare di amplificare i suoni. Più tardi, quando l’udito era ormai completamente scomparso, utilizzò anche una bacchetta di legno che mordeva mentre era appoggiata alla cassa armonica del pianoforte, in modo che le vibrazioni sonore potessero essere trasmesse al suo cranio e, attraverso di esso, al suo orecchio interno. Alternativamente sfruttava le vibrazioni del pianoforte per “sentire” la musica. Era solito appoggiare la testa contro lo strumento mentre suonava, percependo le vibrazioni che gli permettevano di avere un’idea del suono.
Ludwig Van
Ludwig Van verso i 32 anni aveva un udito ormai compromesso, che sarebbe scomparso totalmente dopo i 40 anni. La sua memora musicale accumulata sino a quel periodo lo sostenne per tutta la vita, sopperendo con la mente all’incedere fantasmagorico dell’imponente orchestrazione immaginata.
Utilizzava strumenti di supporto come il “timpano”, un apparecchio acustico primitivo, per cercare di amplificare i suoni. Più tardi, quando l’udito era ormai completamente scomparso, utilizzò anche una bacchetta di legno che mordeva mentre era appoggiata alla cassa armonica del pianoforte, in modo che le vibrazioni sonore potessero essere trasmesse al suo cranio e, attraverso di esso, al suo orecchio interno. Alternativamente sfruttava le vibrazioni del pianoforte per “sentire” la musica. Era solito appoggiare la testa contro lo strumento mentre suonava, percependo le vibrazioni che gli permettevano di avere un’idea del suono.
Possiamo immaginare la sua ricerca paradossale e spasmodica di sintesi musicale (ritmica e armonica) che nessuno aveva mai tentato prima. Con un orecchio sul pianoforte, che lo portava a confrontarsi con se stesso con un un rigore teutonico tra l’esperienza umana e il suo destino. Parlano di questo, infatti, le note iniziali della Quinta Sinfonia, forse uno dei motivi più celebri e riconoscibili della musica classica. Quattro note: tre note brevi seguite da una nota lunga (notate come “short-short-short-long”).
Il Destino: durante la Seconda Guerra Mondiale, questo incipit fu adottato come simbolo di “V for Victory” a causa della somiglianza ritmica con la lettera «V» nel codice Morse (•••−). Dal profondo del suo silenzio fisico interiore, cercava di manifestare un impegno indomito di trionfo e resistenza.
Glenn
Glenn, uno dei pianisti più celebri e iconoclasti del XX secolo, era noto non solo per il suo talento musicale straordinario, ma anche per la sua posizione corporea insolita quando suonava il pianoforte. La sua postura, infatti, è diventata quasi leggendaria e parte integrante della sua immagine artistica.
Seduto su una sedia pieghevole bassa, costruita da suo padre, che portava sempre con sé. Questa sedia era molto più bassa del normale sgabello da pianoforte, e ciò faceva sì che le sue mani si trovassero in una posizione veramente elevata rispetto ai tasti. Questa postura insolita gli permetteva di avere un controllo e una precisione unici nel tocco.
Una posizione raccolta: si curvava in avanti, quasi abbracciando il pianoforte, con il viso molto vicino ai tasti. Le spalle piegate in avanti e la testa a volte oscillava mentre suonava. Questa postura gli conferiva un’aria quasi ascetica e concentrata, riflettendo la sua dedizione maniacale alla musica.
Glenn era anche noto per i suoi vocalizzi mentre suonava, spesso canticchiando le melodie. Una manifestazione fisica della sua profonda immersione nella musica. La combinazione di postura e vocalizzi faceva sì che le sue esibizioni fossero non solo auditive, ma anche visivamente una manifestazione di trasformazione della dimensione corporea.
Una posizione non casuale, ma frutto di un’intensa ricerca personale di connessione con lo strumento, permettendogli di raggiungere un livello di esecuzione e di interpretazione di cui solo lui era portatore.
Aretha
Aretha entra in sala ed è già una luce tattile. Tutti cercano di toccarla per credere. Il coro l’aspetta, ondeggiano a ritmo da una parte all’altra, battendo le mani a tempo, come fossero pioli di una scala.
Lei prende posto sul palco da oratore e non di può dire veramente che cominci a “cantare”. Non nel senso comune di noi mortali. Sono delle vibrazioni vocali, dinamiche, salgono e scendono da non saprei dire quale dimensione, superando qualsiasi classificazione di scala musicale. Si arrampicano su e giù per gli scalini offerti dal ritmo del coro condotto dal Rev. Dr Alexander Hamilton, che li orchestra muovendosi come un giunco nel vento.
E poi il pubblico sente e comprende di essere in un momento di trascendenza fisiologica. Nulla di alieno, tutto visceralmente umano.
Un cronista dell’epoca del New York Times, scriveva che assistere a un esperienza del genere avrebbe fatto vacillare le credenze di qualsiasi ateo. Tra i commenti dei video postati su YouTube, un soldato ukraino testimonia: “I am a ukrainian soldier and I could believe in anything in the world, not only Jesus, when Aretha is singing about it“, “potrei credere in qualsiasi cosa al mondo, non solo Gesù, quando Aretha ne canta”.
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