Ci sono dei brani musicali della tradizione occidentale che hanno lo stesso potere evocativo dei canti sacri indiani? Noi ne abbiamo scovati due: il primo di Gavin Bryars, compositore e contrabbassista inglese, il secondo di Ryūichi Sakamoto, genio giapponese scomparso nel 2023. Leggete qui sotto e regalatevi un’esperienza “mistica”.
JEASUS BLOOD NEVER FAILED ME YET – Gavin Bryars
È qualcosa che sta tra una ninna nanna, un gospel e un esperimento di musica contemporanea. Il pezzo ruota attorno a un loop di 26 secondi, la voce di un corpo antico e molto logorato (un homeless), che canta alcune righe di un inno mezzo dimenticato: «Il sangue di Gesù non mi ha mai deluso… questa è l’unica cosa che so, perché lui mi ama così tanto».
Dopo alcuni minuti di questo inquietante assolo vocale, Bryars – con incredibile concentrazione e delicatezza – introduce un crescente motivo orchestrale per accompagnare la voce fragile. L’orchestrazione cambia in modo quasi impercettibile nel suo tempo indeterminato. L’effetto è di una bellezza che fa esplodere il cuore, ma senza nemmeno una traccia di sentimentalismo. In un senso narrativo vago, l’uomo fragile e abbandonato riceve una dignità dalla musica.
Nel 1971, quando vivevo a Londra, stavo lavorando, con un amico, a un film riguardante persone che vivevano per strada nella zona di Waterloo Station. Durante le riprese, alcune persone si misero a cantare in preda all’ebbrezza – a volte frammenti di opera, a volte ballate sentimentali – e una, che in realtà non beveva, cantò una canzone religiosa “Jesus’ Blood Never Failed Me Yet“. Questa non fu poi utilizzata nel film e mi furono dati tutti i segmenti di nastro inutilizzati.
Quando l’ho riprodotta a casa, ho scoperto che il suo canto era accordato con il mio pianoforte e ho improvvisato un semplice accompagnamento. Ho notato, inoltre, che la prima sezione della canzone – lunga 13 battute – formava un loop efficace che si ripeteva in modo leggermente imprevedibile Ho portato il loop nello studio, dove lavoravo nel Dipartimento di Belle Arti, e l’ho copiato su un rullo continuo di nastro, pensando di aggiungere forse un accompagnamento orchestrale. La porta della sala di registrazione si apriva su uno dei grandi studi di pittura e ho lasciato il nastro in copia, con la porta aperta, mentre andavo a prendere un caffè. Quando sono tornato, ho trovato la stanza, normalmente vivace, insolitamente tranquilla. Le persone si muovevano molto più lentamente del solito e alcune erano sedute da sole, piangendo silenziosamente. Ero perplesso fino a quando ho realizzato che il nastro stava ancora suonando e che erano stati sopraffatti dal canto del vecchio. Questo mi ha convinto del potere emotivo della musica e delle possibilità offerte dall’aggiungere un semplice, seppur gradualmente evolvente, accompagnamento orchestrale che rispettasse la nobiltà e la semplice fede dell’uomo senza tetto. Sebbene sia morto prima di poter sentire ciò che avevo fatto con il suo canto, il pezzo rimane come una testimonianza eloquente, ma sobria, del suo spirito e del suo ottimismo”
È tutto e niente per tutti. L’unica costante del brano tende a essere un nodo in gola. Da allora negli ultimi 50 anni ne sono state editate innumerevoli versioni dai 5 ai 75 minuti.
FULLMOON – Ryūichi Sakamoto
Inizia con una citazione di Paul Bowles, romanziere e poeta inglese, che legge il suo romanzo Il tè nel deserto (1949) – portato sul grande schermo da Bernardo Bertolucci (The Sheltering Sky, 1990 ), di cui Sakamoto scrisse le musiche. Nel sottofondo parte su un’onda sonora sinusoidale di pianoforte e sintetizzatori:
Poiché non sappiamo quando moriremo,
pensiamo alla vita come a un pozzo inesauribile.
Eppure tutto accade solo un certo numero di volte,
e un numero davvero molto piccolo.
Quante altre volte ricorderai
un certo pomeriggio della tua infanzia,
un pomeriggio che è così profondamente parte del tuo essere
che non puoi nemmeno concepire la tua vita senza di esso?
Forse altre quattro o cinque volte,
forse neanche quelle.
Quante altre volte vedrai sorgere la luna piena?
Forse venti, eppure tutto sembra illimitato.
Sakamoto sente questa voce quando stava lavorando al film, proprio alla fine della pellicola. Il testo è molto drammatico e serio riguardo alla vita e alla morte, e quell’estratto si trova subito dopo che il marito della protagonista muore nel mezzo del Sahara, in mezzo al nulla. Ma la voce di Bowles suona leggera; non sembra troppo seria, dal modo in cui la esprime. Sakamoto fu attratto più dal suono che dalla malinconia di una resa così caduca della vita.
Da lì in poi si dipana una babele di voci, cinesi, giapponesi, persiane, induiste, brasiliane, francesi, tedesche, spagnole, per finire con Bernardo Bertolucci che 30 anni prima aveva generato questa intuizione, con cui su chiude un cerchio tutta che l’umanità condivide.
Nessuno guarderà più la luna, o anche una foglia cadente, allo stesso modo.

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