Qualche weekend fa ho deciso di fare un viaggio verso l’interno della Sicilia, per visitare paesi e luoghi che da tempo mi ripromettevo di vedere.
Succede un po’ a tutti di preferire viaggi in posti lontani ed esotici, rimandando a un imprecisato futuro la visita delle tante meraviglie che ci stanno vicino. L’idea che siano a portata di mano ci inganna, e a volte ci accorgiamo di aver raggiunto una certa età senza aver mai visto luoghi e opere d’arte che tutto il mondo ci invidia. A quel punto bisogna rimediare, smettendo immediatamente di procrastinare.
Mossa da questo spirito ho messo in fila vari obiettivi, fra cui diversi borghi, nominati come “i più belli d’Italia. Le due Petralìe (Soprana e Sottana), dalle ordinate case di mattoni caldi e rossi. Geraci Siculo, dov’era in corso la Festa della Transumanza, che celebra il trasferimento del bestiame verso i pascoli alti, estivi. Mandrie e greggi sfilano, come star sul red carpet, per le vie del paese. E poi Castelbuono, la “Taormina” dei palermitani, meta che attira tanti turisti anche per i prodotti dolciari di una nota azienda. Gangi, uno strettissimo labirinto di case di pietra color ocra, aggrumato su un pizzo a mille metri di quota. Nella Chiesa Madre il più grande dipinto esistente sul Giudizio Universale. Ovunque opere e beni culturali che dovremmo custodire e amare di più.
Fra un borgo e l’altro panorami mozzafiato, ampissime valli, e colline e pianori, tinti del giallo del finocchietto selvatico, del rosso della sulla e dei papaveri, e del verde della vegetazione spontanea. L’empireo della biodiversità, il regno del silenzio e degli sconfinati spazi non ancora antropizzati.
Gettarsi sulle spighe e sui fiori, ascoltare i suoni della natura, vedere questo tripudio di colori. Questa è la vera realtà aumentata di cui avremmo tutti urgente bisogno. Altro che arricchimento della percezione attraverso un elaboratore sintetico. Opponiamoci a questa follia.
Sulla via del ritorno la ciliegina finale: la Dea di Morgantina. Si tratta di una statua acrolitica, cioè una statua fatta di materiali diversi: il corpo di tenera pietra calcarea proveniente dalle mie zone, nel Ragusano, e la testa e gli arti di fine marmo bianco greco. La sua storia è la storia del più grande furto archeologico di tutti i tempi.
La statua fu trovata clandestinamente alla fine degli Anni 70, in un luogo imprecisato nell’area archeologica di Morgantina, smembrata in tre pezzi e fatta sparire. Ricompare dal nulla in Svizzera, nel 1986, quando un tabaccaio di Lugano la vende, per 400.000 dollari, a un mercante inglese, che a sua volta la vende al Paul Getty Museum per 10 milioni di dollari. La statua, esposta nel 1988, attira subito l’attenzione di esperti e autorità giudiziarie. Una lunga causa dimostrerà l’esportazione clandestina del reperto che verrà restituito all’Italia nel 2011, ed esposto nel museo di Aidone, dove ancora oggi si trova.
Appena entrati nella stanza che la contiene si capisce subito di essere in presenza di una vera e propria rappresentazione del divino. Le dimensioni sono imponenti: 2 metri e 44 centimetri. Nella mia mente scorrono le immagini delle tante persone che si affaccendano per trafugarla, in piena notte, con trattori, cavalli e furgoni. E poi il suo lungo viaggio, le tante destinazioni segrete fino all’approdo in questo luogo dimenticato da Dio, al centro della Sicilia, la sua casa. Non è forse la storia della natura profonda di ciascuno di noi?
La guardo e la immagino in cima allo scalone del Louvre, le sue dimensioni sono identiche a quelle della Nike di Samotracia. Ma mi rendo subito conto che questo è un pensiero nato dall’orgoglio. Cosa cambia, in fondo?
Anche in mancanza di alcune parti, la dea trasuda bellezza e perfezione. La sua posa suggerisce che sta avanzando, aiutata dalla luce di una fiaccola che, probabilmente, tiene in mano. Non è quello che dovremmo fare anche noi? Affidarci a una luce che il più delle volte è resa invisibile dalla coltre di condizionamenti e sovrastrutture che ci siamo costruiti nel corso della vita? Certo che sì.
Davanti alla dea, e in certi luoghi, ci è chiaro che non ci stiamo tanto spostando nello spazio quanto, piuttosto, nel tempo. Posiamo i nostri sguardi e le nostre membra laddove migliaia di individui prima di noi hanno posato i loro. Se siamo abbastanza sensibili possiamo sentire le loro lacrime, le loro emozioni, e possiamo percepire noi stessi avvolti e contenuti nello stesso flusso spazio-temporale. Se persistiamo in questa sensazione proviamo paura e angoscia. Questo accade perché siamo prevalentemente identificati con il corpo fisico e la dimensione materiale. La nostra mente ordinaria si difende da questo volo pindarico e ci riporta alla “realtà” attraverso la paura. Ci sta dicendo: «Ehi amico, non puoi vivere in uno stato di contemplazione mentre sei immerso nelle dinamiche della dimensione consumistica e materialistica». Per difendere il suo territorio la mente cognitiva e giudicante sfodera sempre una logica inoppugnabile che ci fa ritornare, con la coda fra le gambe, al pensiero corrente.
Ma quel pensiero più sottile, più universale, più cosmico non è un corto circuito, non è un errore. È il nostro collegamento con la dimensione spirituale, che è un bisogno primario dell’uomo e che, come tale, sempre emergerà a prescindere da quali tecnologie saranno in atto. Per questo motivo non è mai sbagliato lavorare sull’allargamento del campo della coscienza, unico collegamento fra il tempo lineare della nostra vita ordinaria e il tempo circolare della nostra vita eterna.

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