
Mentre molto di ciò che mi veniva proposto negli anni degli studi secondari, scorreva sotto i miei occhi di adolescente non propriamente interessato al voto nelle interrogazioni, una parte di una raccolta dal nome musicale più ampia, gli Idilli, di Giacomo Leopardi, ha costantemente mantenuto la sua presenza nella mia vita. Parlo, ovviamente, della poesia L’Infinito.
Conoscete quella percezione di accogliente familiarità che si può provare entrando in un luogo che ci riguarda, dove ti sembra di esserci già stato e di volerci rimanere? Ecco, l’incontro con questi versi spalancò in me una misteriosa piacevole, inspiegabile familiarità. La sua vibrazione magnetizzò la mia attenzione sin dalle prime parole.
Le onde visive e sonore tratteggiate nelle righe, risuonavano sotto la mia pelle, e quell’inno maestoso divenne per me un compagno di viaggio. Un quadretto, molto famoso fra l’altro, una copia del manoscritto con correzioni del poeta, campeggia davanti al mio sguardo sulla scrivania di qualunque casa abbia abitato dall’età di 19 anni. Come la foto dei figli o degli affetti più cari. Mi ha accompagnato in provini teatrali, era con me nello studio di una importante radio romana quando lavoravo come speaker, in camerino del primo spettacolo a cui presi parte. Lo inserii in un film, di sfuggita sullo sfondo, mi ha seguito in viaggio nella lavorazione di un altro film, fino in Thailandia. Lo sentivo come un sostegno. Quasi un’immagine sacra.
E poi le visite alla casa dell’autore e al famoso orizzonte. Il tempo che volò via nell’istante e che divenne cielo, quando lo sguardo varcò quel muretto per andare incontro allo spazio immenso (la vera siepe non c’è più, se mai ci fosse stata, ma poco importa). È un’immagine che dipinge uno stato elevatissimo, che rapisce chi si mette in una condizione di accoglienza di fronte all’immensità che affiora nella contemplazione della Natura. Tutto si dilata. Finalmente ci si perde fino ad amare il perdersi. L’estasi. L’incontro con l’Infinito, appunto.
A distanza di tempo, quando lo yoga aveva già spalancato le sue braccia alla mia vita, quell’immagine incorniciata, appesa alla sinistra del monitor del computer, mentre rovistavo alla ricerca di non ricordo cosa, urtò contro la mia mano e cadde sulla scrivania, liberandosi dalla sua cornice.
Non ho sbagliato nello scrivere che fu lei a urtarmi e non il contrario.
Ho la gioia di condividere gli insegnamenti dello Yoga e, in quel momento, stavo preparando un incontro sul tema «Intelligenza intuitiva», quello stato della nostra coscienza in cui l’idea, la soluzione ad un problema, l’ispirazione, non arrivano da un ragionamento (anzi questo la interrompe), da uno sguardo esteriore o dai segnali del subconscio, eppure, senza sapere come, si manifesta. Abbandonato il confine del processo cognitivo, in alcuni casi limitante perché ogni problema contiene in sé la soluzione, procediamo verso un nuovo livello: la supercoscienza. Questa condizione si approfondisce e si nutre attraverso la meditazione. Allenandosi a lasciar dissolvere i cancelli di cuore e mente, in profonda pace. Non è un super potere, è uno sguardo nuovo. Un vedere che osserva privo di sovrastrutture. Di “lo so già”. Non si fissa sulle cause, ma sul senso globale dell’accadere. Intuire significa “comprendere dall’interno”. Lasciar calare il velo dell’apparenza per entrare nel nostro centro, così saremo nel centro della necessità, dell’argomento incontrato, perché l’essenza è ovunque. Se sappiamo riconoscere la nostra, lì è la risposta.
Ero in momento di “stallo” sulla stesura di un programma. La mia mente era indaffarata a cogitare sull’impegno ma quell’evento imprevisto aveva aperto un varco a una possibilità : l’Infinito, inteso come Coscienza cosmica, Verità, Dio o come si vuole chiamare, era presente (come sempre) in me, ma, preso dall’arrovellamento mentale, dalla ricerca nel razionale o al massimo nel magazzino del subconscio, questo auto-brainstorming limitava quello che avrebbe dovuto essere, da lì a breve, una condivisione sul lasciare affiorare ciò che non è ancora stato e a cui ognuno può accedere per trasformare l’esistenza, l’Intuizione appunto. La conseguenza naturale del processo meditativo. Dell’abbandono a ciò che sta cercando di accadere. Insomma sentii un suggerimento forte e chiaro: «Lascia (ac)cadere l’Infinito».
Avevo ancora la poesia fra le mani e iniziai a leggerla…

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare
Più la osservavo e più sentivo un richiamo a cambiare atteggiamento. Era un invito a entrare dentro. Sembrava un suggerimento del cammino negli ultimi passi del sentiero tracciato dal grande Patanjali, Dharana e Dyana. Qualcosa mi aveva portato a una concentrazione che mi “dirigeva verso”. Una condizione di assorbimento mi calamitava fra quelle righe e la lettura di questi versi immortali divennero, per me, tutt’altro di una parafrasi tradizionale.
Leopardi, nel contemplare l’esterno, interrompeva la separazione fra chi vede e l’oggetto dell’osservazione, per divenirne parte. Scioglieva i confini della separazione. MEDITAVA!
Sempre caro mi fu quest’ermo colle
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude
Quanto siamo attaccati alla nostra mente, ci è così cara. È difficile lasciar andare i suoi presupposti. È il colle che sovrasta tutto. Con la siepe dei pensieri che offuscano la vista interiore lasciandoci al di qua di una vita che non riusciamo a raggiungere, che è, in verità, la nostra direzione. Una vita Elevata, oltre i confini delle abitudini e degli automatismi. Come Dante davanti alla selva oscura, che gli ha fatto perdere la via.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mio mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura…
…ma fermando il corpo, seduto, portando lo sguardo verso l’orizzonte (il punto fra le sopracciglia), chiudendo gli occhi esteriori, lasciando aprire lo sguardo verso l’immenso dell’interiorità, che va oltre l’umano ripetersi del “già visto”, dei confini prestabiliti, se non fuggo dal silenzio e dalla quiete (quando calano i vortici del flusso mentale), qualcosa affiora, che va al di là delle forme del pensiero. Questo, a volte, può creare un senso di timore.
Durante un incontro sulla meditazione con persone completamente all’oscuro dell’argomento, dopo una breve pratica, alcuni mi riferirono di aver avuto un senso di smarrimento, di paura. Quasi di cadere nel vuoto. Sentirono, nel momento più profondo dell’esperienza, la necessità di aprire gli occhi. Questo accade perché la mente non è abituata a “spegnersi”. Solo in una fase del sonno lo accetta, ma perché è allenata a farlo e conosce bene il procedimento. Ha paura della “fine” del suo esistere e si manifesta come può. Non accade a tutti, ma può succedere. La meditazione è un po’ un allenamento alla morte, inteso come distacco dalle identificazioni, alla supremazia dell’ego, per lasciar emergere il vero Sé. E il controllo è duro da lasciare. L’esterno è un ancora che trattiene. A cui ci aggrappiamo.
E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando
Il respiro è il vento che alimenta la nostra esistenza, veicolo del Prana e prana stesso, la forza vitale. Il soffio. Il respiro ci dice come sta la nostra testa, il colle. Intendo il movimento dei nostri pensieri. Quando la mente si calma, il respiro segue. Quando il respiro si calma, la mente segue. Sono interconnessi. Come vento e foglie. Come ogni molecola esistente su questo pianeta e oltre, ma con il respiro e la mente possiamo fare un’esperienza pratica immediata. Sappiamo bene che quando siamo agitati il respiro accelera. O quando subiamo uno choc ci viene detto “Fai dei respiri lenti. Inspira, espira…”. E in breve ci calmiamo.
Il respiro è l’autostrada che ci porta verso l’interno, verso l’osservazione della vita che ci attraversa e sostiene. E questa vita è divina. E la sua voce, solo il silenzio, la sospensione dei pensieri, può rivelare.
e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei
Immerso nel respiro, lentamente, il suo movimento si fa sempre più sottile. Il tempo perde la sua connotazione. Ciò che è stato e ciò che sarà non modellano stati d’animo o riflessioni o altro. Esiste solo l’Eterno Presente. Non c’è più alcuna separazione.
Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare
In questo stato, l’illusione di essere una goccia staccata da tutto, scompare. Perché la goccia è solo un pensiero, un processo mentale che tende a separare a parcellizzare. È il senso dell’io. Non c’è nessuna goccia, in realtà, nessuna separazione. Ma è necessario l’abbandono, il lasciar andare ogni attaccamento, le convinzioni, il torto e la ragione, il tuo/mio. Allora è il naufragio (il naufrago non ha più nulla) a rivelarci la nostra realtà ultima. Samadhi si chiama nello Yoga, questo stadio di coscienza. Non serve più alcuna isola su cui approdare. La goccia è divenuta Oceano.
Gli ultimi versi della poesia di Paramhansa Yogananda, Samadhi, descrivono così:
Immacolato è il mio cielo mentale, sotto, davanti, in alto.
L’eternità e Io, un solo raggio unito.
Da minuscola bolla di risa,
son divenuto il Mare stesso della Gioia.

L’incontro svolto fu meraviglioso. Quando accompagno queste esperienze è davvero per me un mistero da dove arrivino le parole che fuoriescono nella mia voce. Ciò che accade concorre ad avventurarci assieme ai presenti laddove non era previsto, attraverso l’intervento di ognuno, e a trovarci in una sintonia così profonda. Condivisi con i partecipanti questa modalità di lettura dell’Infinito. Rimasero attoniti come a dire «Ma certo che è così». E vidi in loro il mio stesso stupore.
A volte mi accorgo che i miei occhi si poggiano su cose che, pur guardando da secoli, non avevo ancora mai visto veramente. Perché l’Infinito non è qualcosa di grandissimo, ma ciò che non ha confine, come l’Amore. A-mors, privo del confine della morte. Come ogni minuscola cosa in cui partecipi all’essenza. Al centro.
Nel momento in cui accolsi l’esperienza di questo nuovo punto di vista, lo stupore divenne un filtro con cui osservare. Da allora ho iniziato ad accorgermi. E trovo letture così nuove ed evidenti delle “cose”, a me prima ignote, a volte, che ne accendono il senso. Tutto ha una sua luce che vuole manifestarsi. La mente è un confine che aspetta di essere varcato per entrare nel cuore di ciò che osserviamo. Nel silenzio interiore le cose cambiano forma, perché davvero nulla è come sembra.

Era il 1975, a Parma. Avevo un rapporto molto laico con lo yoga, tutti noi eravamo mossi da una sincera curiosità accompagnata da un certo distacco nei confronti del mondo esoterico e mistico; questa è stata una fortuna e non a caso nessuno di noi ha poi seguito anni dopo il filone New Age...

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