Ho appena finito di leggere, tutto d’un fiato, il libro di Corrado Pensa Il silenzio tra due onde (Uniliber). Da tempo desideravo conoscere meglio la meditazione, per spingermi oltre il punto di vista della filosofia Yoga, e ho voluto aspettare l’uscita di questo libro in particolare. Il motivo è presto detto.
L’autore, oltre a essere un autorevole insegnante di meditazione buddhista è stato docente di Religioni e Filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente alla Sapienza di Roma, e anche uno psicoterapeuta junghiano.
Le mie aspettative non sono state tradite al punto che reputo questo libro un autentico gioiello, un must have, un testo che ogni ricercatore spirituale dovrebbe tenere sempre a portata di consultazione.
Il libro è ricco di contenuti filosofici sul messaggio di Buddha, ma soprattutto contiene suggerimenti pratici su come meditare correttamente. Dunque non solo “cosa sono” le 4 Nobili Verità e l’Ottuplice Sentiero, ma come si fa ad averne esperienza, a viverli nel quotidiano.
Più che di meditazione buddhista, che pure è il tema centrale, questo libro parla di come funziona – male – la mente umana. L’esperienza di psicoanalisi dell’autore è palese quando egli parla di mente giudicante, disagio emotivo, irrequietezza mentale, autosvalutazione e di ogni sorta di sofferenza non necessaria che siamo capaci di autoinfliggerci. Pensa ci esorta a prendere in carico il nostro bagaglio mentale negativo con pazienza e tenerezza, e a dirigerci verso la completa accettazione del nostro essere, spogliato dall’ego. Non ci sono scorciatoie, né mezze misure. Come per lo Yoga e per altre vie iniziatiche, anche per la meditazione buddhista il cammino non può iniziare se non si recide l’ego.
Nella parte in cui si parla delle relazioni viene posto l’accento sull’ incapacità di perdonare, causata dal meccanismo di identificazione: «Se faccio una cosa sbagliata, sono sbagliato io». Questa è la sentenza che il nostro ego pronuncia continuamente. Per scardinarla bisogna «osservare l’ego e smettere di credere alle cose che racconta su di noi». È l’ego che inquina il rapporto che abbiamo con noi stessi e con gli altri, e che ci fa oscillare perennemente fra il sentirci ora inadeguati, ora invincibili. Che ci mantiene nell’assillo di dover mantenere l’immagine di persone capaci, perfette, solide e stabili. Una menzogna di fondo che ci costa un indicibile dispendio energetico. Dovremmo partire, suggerisce Pensa, dal comprendere che ci ascoltiamo in modo giudicante e selettivo, prendendo solo ciò che ci piace e ci conviene. E ascoltiamo gli altri allo stesso modo. Quest’abitudine deve essere sradicata, obbligandosi a lasciare andare «l’identificazione con la mente discorsivo-emotiva e fare spazio alla presenza consapevole, fino a raggiungere una “massa critica” di momenti di consapevolezza benefica» che orienteranno la nostra nuova consuetudine di pensiero. In sostanza dobbiamo prendere una nuova patente per guidare la mente a pensare in modo opposto rispetto alle nostre abitudini.
Come fare? Con un cammino graduale, iniziando dalle cose semplici: ritornare al respiro, a quello che stiamo facendo, che in ultima analisi significa tornare alla nostra volontà di cambiamento, alla determinazione di non subire la dispersione mentale. Imparare a esprimere pensieri di benevolenza nei confronti di tutti, e a “stare nel disagio” invece che rimuginare su esso. Vedere chiaramente le nostre chiusure e le nostre resistenze.
Pensa ci ricorda che l’attaccamento alle opinioni è considerato da Buddha uno degli elementi più divisivi, un vero e proprio ostacolo sul cammino verso la liberazione.
Altri elementi essenziali del cammino sono: risiedere nel presente, dedicarsi ai propri talenti, dire e dirsi sempre la verità, anche nel proporsi tempi di pratica quotidiana che siano realistici, in modo da essere costanti. Unirsi a ciò che si sta facendo, osservare, riconoscere e rinunciare all’attaccamento, all’avversione e all’ignoranza. Su questi tre elementi l’autore si sofferma lungamente, in quanto cause primarie del disagio di ogni individuo.
Lavorare sull’attaccamento significa comprendere che stiamo dirigendo nella direzione «sbagliata il nostro naturale desiderio di benessere». Dobbiamo smettere di cercare la felicità nelle cose, nel possesso, nel controllo. Dobbiamo ri-orientare questo desiderio e superare la paura che se rinunciamo a questi attaccamenti perdiamo la nostra identità.
La mente va coltivata per non essere penetrata dall’attaccamento, diventando spaziosa, rilassata, aperta. Pensa precisa che la proliferazione mentale, il rimuginìo, non nascono dal nulla ma sono generati dall’attaccamento, che si esprime primariamente nei confronti del corpo e della mente. L’autore parla molto anche di avversione. Se qualcuno ci dice: sei ostile, noi subito rigettiamo quest’accusa, professandoci sereni, aperti, amichevoli. Ma riflettendoci a freddo, eccome se siamo in conflitto perenne con noi e con gli altri, eccome se facciamo resistenza, eccome se ci portiamo appresso un’espressione corrucciata che rivela insoddisfazione e frustrazione. Quando Pensa parla di ignoranza, infine, si riferisce alla necessità di imparare a distinguere ciò che veramente conta da ciò che è superfluo e frutto di attaccamento egoico. Tutte tematiche comuni con lo Yoga classico.
Interessante la riflessione che l’autore fa in merito a come ci si approccia alla pratica meditativa oggi, e che, secondo me, vale anche per la pratica di Yoga. La regola sarebbe di iniziare dall’etica, dalla comprensione dei concetti di rinuncia e attaccamento, e poi praticare le meditazioni, così come per lo Yoga si dovrebbe partire da Yama e Niyama. Invece oggi si parte dalle 4 Nobili Verità (e da asana e pranayama, per lo Yoga) e si rimanda la base etica a un dopo, che forse non ci sarà mai. L’ottuplice sentiero, come lo Yoga classico, è una commistione di «comprensione-saggezza, etica e meditazione» che devono essere coltivati di pari passo e gradualmente.
Nell’appendice finale l’autore condensa i temi fondanti dell’insegnamento del Buddha, partendo dalla Meditazione. Distingue le forme prevalenti di meditazione nel buddhismo, che sono:
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la meditazione di raccoglimento, in cui l’attenzione viene focalizzata su un unico oggetto (che per lo Yoga è Dharana, la concentrazione);
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la meditazione di consapevolezza, in cui la consapevolezza cerca di mantenere una stabilità equanime e non giudicante, spostandosi fra i vari contenuti proposti dalla mente. Un’attenzione a tutto campo possibile solo per chi riesce a praticare l’auto-osservazione ripetutamente, senza stancarsi mai, col medesimo entusiasmo. In questo modo ci si può risvegliare, e vedere chiaramente la modalità soggettiva e condizionata della realtà che ci costruiamo;
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la meditazione informale, «la pratica in azione», che consiste nel meditare, per esempio, durante lavori manuali, in situazioni piacevoli e spiacevoli. Meditare nel contesto ordinario significa, tra le altre cose, darsi una direzione di pensiero, far emergere pensieri di benevolenza ed equanimità, ricorrere alla consapevolezza del respiro, rinunciare alla reattività. Il tutto in un contesto spesso sfavorevole, che però ci serve da sprone, per osservare e intervenire sulle abitudini mentali.
Anche la pratica «parlata delle dimore sublimi», o la «presa di rifugio nelle Tre Gemme», sono pratiche attuabili in ogni momento della giornata, che oltre ad aiutarci a gestire la rabbia e l’arenarsi della mente nelle sue ossessioni, dispersioni e comparazioni, diventano veicolo dello slancio nel mantenersi sul cammino.
I capitoli sulla fiducia nella consapevolezza, l’intenzione liberatoria, l’amore per la pratica, il saper lasciar andare sono illuminanti, e tutto lo scritto aiuta a focalizzarsi sulla direzione corretta da dare alla pratica e alla propria vita. Il silenzio tra le onde è un libro piacevole e profondo, da leggere e rileggere più e più volte.

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