Spesso si dice che lo yoga sia un viaggio per conoscere se stessi. Un viaggio che, nel caso dello Hatha-Yoga, si percorre attraverso il corpo. Ci mettiamo sul tappetino, seguiamo le indicazioni del nostro maestro e tentiamo di trascendere i confini del corpo fisico per accedere al corpo energia, e infine espandere al massimo la coscienza. Viaggiare significa esplorare territori sconosciuti, mettere alla prova la propria adattabilità, fondersi con abitudini diverse, lasciarsi essere in un contesto non ordinario.
Ma cosa ci succede quando viaggiamo per davvero? Quando, cioè, lasciamo la nostra casa per visitare un luogo lontano che ci attrae? Riusciamo a penetrare l’essenza di quel luogo oppure cerchiamo di ricreare anche lì la nostra routine?
Ci rinnoviamo, lasciandoci sorprendere dall’esperienza, oppure ci portiamo appresso le stesse malsane abitudini che abbiamo a casa?
Se è vero che Yoga significa (anche) «fare ciò che stai effettivamente facendo», il viaggio si rivela, ahimè molto spesso, un evento che conferma la nostra attitudine alla dispersione mentale. Un’attitudine che diventa comportamentale.
Probabilmente non sappiamo più divertirci per davvero, perché, a quanto pare, non riusciamo più a fare esperienze non mediate dagli smartphone, che ci trasformano inesorabilmente in tanti zombie che vagano qua e là. Stiamo passeggiando in Piazza San Marco? Passeggiamo, invece di fotografare e cercare la posa ideale per un selfie. Per tutto il tempo. Stiamo per assaggiare una fetta di tarte Tatin? Ce la godiamo, oppure per prima cosa la postiamo sui social? Gli esempi possono essere centinaia. E per ciascuno sarebbe interessante porsi la stessa domanda: se non avessi uno smartphone come vivrei questo momento?
Forse il mio è un discorso che i giovanissimi considererebbero “da boomer”, cioè la tipica reazione del “vecchio” che non capisce il divertimento del giovane. Che il modo di divertirsi cambi nel tempo lo considero un dato di fatto, così come è vero che per i millennials (cioè i nati fra l’80 e il ’94) e per la generazione Z (’95-2010) non esiste un mondo in cui non ci siano gli smartphone e i social.
Ma che divertimento è se non c’è partecipazione emotiva? Se non sono consapevole di quello che sto facendo e provando? Se incontro gli amici e poi ognuno china il capo sul suo infinite scroll? È importante, specie per chi pratica yoga, interrogarsi sull’uso che si fa di questo infernale e affascinante aggeggio. Su quanta parte della nostra vita gli abbiamo delegato. Sul senso di vuoto che proviamo quando si scarica o lo perdiamo di vista per qualche tempo.
Forse ci troviamo davanti a una nuova, e altamente insidiosa, forma di avidya (la non conoscenza, l’ignoranza, ndr). Una nuova alienazione di noi stessi in favore della nostra identità social. Una dimensione che celebra quelle stesse spinte egoiche che lo yoga ci invita a riconoscere e a distanziare. Se così non fosse saremmo immuni dalle arrabbiature per i pochi “like”su un post che riteniamo importante, o per un messaggio di risposta che tarda ad arrivare malgrado la spunta ci confermi l’avvenuta lettura.
Sarebbe un esercizio interessante riuscire ad applicare vairāgya (il distacco, ndr) a queste situazioni, riportandole all’ autentica dimensione che le connota, cioè quella di storie di ordinaria scemenza.
Un’altra indagine da portare avanti sarebbe quella di interrogarsi sul criterio che usiamo per scegliere le mete dei nostri viaggi. Cerchiamo luoghi da vivere o da postare? La risposta ci può rivelare tanto sulla relazione che abbiamo con le nostre emozioni e la nostra interiorità in generale.
Lo yoga ci insegna a trascendere la mente attivata dai sensi (manas), che si muove eccitata da ahamkāra, l’ego, per condurre la coscienza al pensiero intuitivo (buddhi), puro, nettato da ogni condizionamento.
Se ogni X minuti devo fermarmi a immortalare e poi condividere un’esperienza, quale parte della mente sto usando? Altro che mente intuitiva e superiore, stiamo nutrendo una forma particolare di ego. Che, come da manuale, si irrita e recalcitra quando la metti di fronte a certe contraddizioni.
Abbiamo veramente, e definitivamente, regalato alla nostra frivola identità social le emozioni che ci può donare la vita? Per tacere del nostro tanto agognato viaggio.
Se pensiamo di no, proviamo allora a educarci a disattivare progressivamente lo smartphone, fino a tenerlo spento il più a lungo possibile, impegnandoci a diventare veri viaggiatori, del mondo e del profondo.

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