La pratica di yoga ci lascia sempre sensazioni diverse perché siamo esseri in continua trasformazione. A volte può succedere di provare del disagio o del turbamento dopo la pratica e non capiamo perché. Io mi sono data queste risposte.
Ogni tanto capita di percepire uno stato di malessere dopo la pratica. Non un malessere fisico, piuttosto una sensazione di generale turbamento o di irritazione. Vuol dire che abbiamo praticato male? O che l’insegnante non è bravo? No. Affatto. In realtà questo fenomeno è comune e riguarda la grande maggioranza dei praticanti. Tocca all’insegnante mettere in guardia gli allievi sulla possibilità che questo accada, senza aspettare che sia l’allievo a comunicare il suo vissuto. L’allievo, specie se principiante, un po’ per timidezza, un po’ per non sentirsi inadeguato alla pratica, può scegliere di tenere per sé questo “segreto”. E le cose non dette, si sa, sono fonte di problemi. Infatti, al persistere di questa sensazione può anche scegliere di non praticare più, perdendo l’opportunità di fare un importante lavoro su se stesso. Tutti pratichiamo per stare meglio e ritrovarci di cattivo umore o confusi dopo la pratica non è piacevole. Ma perché ci succede? E come possiamo superare il manifestarsi di questa inaspettata reazione alla pratica?
Partiamo dal presupposto che la lezione di yoga non è una pratica ginnica, durante la quale possiamo telefonare, ascoltare musica, socializzare, ma un momento di comunione consapevole fra le varie parti che ci compongono: corpo, mente, coscienza e respiro. È per uscire dalla frammentazione di queste parti che pratichiamo. Comunemente ognuna di queste componenti ha vita propria, segue percorsi propri. La coscienza suggerisce qualcosa, la mente condizionata lo manipola, il corpo soccombe all’interpretazione e il respiro avvizzisce.
La pratica di yoga si prefigge il difficile compito di riunire, riappacificare, connettere queste parti e restituirci l’unità perduta. Questo lavoro costa fatica. Nessun “benessere” è mai gratis. La fatica che si fa nello yoga è senz’altro fisica, nel momento in cui eseguiamo movimenti o āsana statici che implicano uno sforzo muscolare. Ma più che altro è legata all’attività introspettiva, alla quale pochissimi sono addestrati.
Questo verso della Katha Upanisad ci spiega perché non dobbiamo sentirci in colpa: «Il nato da se stesso (svayambhū; cioè il Brahman, ndr) aprì le finestre (dei sensi) verso l’esterno: per questo motivo si vede ciò che è fuori, non ciò che è dentro di noi. Qualche saggio desideroso dell’immortalità, rivolgendo lo sguardo verso il suo interno, vide entro se stesso l’ātman». Il creatore ci ha fatti con i sensi rivolti verso l’esterno. Non ci viene naturale guardarci dentro. E le poche volte che lo facciamo rivolgiamo a noi stessi pensieri poco lusinghieri o troppo egoici. Non c’è un vero dialogo basato su osservazione oggettiva, accettazione, assunzione di responsabilità, presa in carico delle emozioni… Quando solleviamo il coperchio emergono lotte, competizioni, contrasti, ambivalenze. Tutte cose che tendenzialmente tratteniamo e/o neghiamo.
Durante la pratica di āsana questi contenuti possono affiorare, ma questo è un bene! Significa che la coscienza riesce a spingere in fuori i contenuti che bloccano energeticamente la nostra crescita individuale. L’āsana è sauca, è purificazione. Quando si pratica āsana nell’immobilità prolungata si stimola il tessuto connettivo, deputato all’eliminazione delle tossine. Ma per attivare quei processi che trasformano l’uomo dall’interno occorre espandere sauca anche negli involucri più sottili. Ecco che le cose si complicano. Col corpo, bene o male, ce la caviamo. Col pentolone mentale che bolle un po’ meno, e alla fine della pratica tutti i nodi vengono al pettine. Come fare a superare quest’impasse?
Innanzitutto pensando che si tratta di una reazione del tutto normale, comune e passeggera. Poi riflettendo sul fatto che ogni processo di purificazione porta con sé degli scarti. Della spazzatura che dev’essere differenziata. Magari iniziando a verbalizzare questo disagio, parlandone con l’insegnante. Infine sviluppando un senso di gratitudine verso la pratica, sia quando ci lascia sereni, sia quando questo non accade.


Il sistema delle caste in India è uno dei fenomeni sociali più antichi e complessi al mondo e affonda le sue radici nei testi religiosi dell’induismo. Nonostante i progressi legislativi, nella pratica le discriminazioni castali non sono scomparse. E anche se il peso elettorale degli “intoccabili” serve al potere, i loro diritti sono pochi e il cammino verso una piena uguaglianza rimane lungo e complesso...

Lo Yoga è patrimonio dell’umanità come lo sono le grandi religioni, il pensiero di Socrate e Platone e le canzoni di Bob Dylan e dei Beatles. Fa parte del nostro immaginario e ha dato all’uomo – non solo all’uomo indiano hindu – una via di liberazione dalle sofferenze. Ecco perché lo celebro sul palco dell'Arena di Milano...

Il primo ministro Modi che ha voluto questa “festa” è la persona meno adatta a parlare di yoga perché il suo governo e il suo partito sono repressivi, violenti e irrispettosi dei diritti umani. Io non ci sto: sono profondamente convinta che lo yoga non sia un proclama di intenti, ma uno stato d’essere, una esperienza personale di chi ha trovato in questa disciplina uno strumento per vivere con più equilibrio e serenità la vita quotidiana

Dice Swami Niranjanananda, erede di Satyananda: «Il secondo capitolo dello Yoga è una nuova visione dello Yoga, non come pratica, ma come vidya, una saggezza che va compresa, assimilata ed espressa nella vita». E poi ancora «risvegliare e integrare le facoltà di testa, cuore e mani». Qualcosa si muove nel mondo di questa via spirituale, non più con l'obiettivo di un corpo flessuoso, ma di una vita integrata. Ed era ora

Nell’agosto del 2022, a pochi mesi dalla morte di mio padre, decisi di ripercorrere le orme del principe Siddhartha Gautama. Il suo percorso, come sappiamo, culminò con l’“illuminazione”. Il mio è stata un'immersione nella sua spiritualità e nei luoghi che lui toccò. Un'emozione che vi racconto a parole e con le mie immagini

Quando si parla di testi della tradizione Hatha, di solito si menzionano la «Siva Samhita», la «Gheranda Samhita» e l’«Hatha Yoga Pradipika». Ma nelle biblioteche indiane giacciono migliaia e migliaia di manoscritti in attesa di essere tradotti. Gli esperti sono pochi e quindi ci vuole tempo. Da poco, per esempio, è stato scoperto e tradotto un altro testo, l'«Amṛtasiddhi», tradotto da James Mallinson, e a sua volta tradotto in italiano dalla nostra Amalia Cornale