C’è una connessione profonda tra le sensazioni del corpo e il nostro comportamento e la Scienza lo conferma. Il cuore non batte sempre nello stesso modo. E allora perché mai chiediamo a noi stessi e agli altri di rimanere prigionieri delle “convinzioni di un momento“?
Vritti è il nome sanscrito delle emozioni che oscurano e distorcono costantemente la nostra visione. Una parola onomatopeica che rende l’idea: possiamo impegnarci quanto vogliamo, ma quando un pensiero ossessivo si impadronisce della mente, la razionalità non può niente. Tutti noi crediamo di vedere la realtà oggettiva con la ragione, ma Patanjali ci ha fatto capire (razionalmente) che c’inganniamo. Colui che può avere questa oggettività di visione è un “organo” che viene costantemente oscurato dalle nostre emozioni, dalle vritti, appunto. Questo “organo” si chiama purusa, nome sanscrito che spesso viene assimilato all’atman o all’anima. Quando però le emozioni, i pensieri ossessivi che sono attratti dai sensi, oscurano la visione, quel purusa, «colui che vede», non vede più. Viene legato e messo a tacere. Sordo, cieco e muto. E questo ci causa tutto il dolore psicologico e psichico che proviamo nella vita.
Quando intraprendiamo una via di ricerca interiore, iniziamo a praticare ogni giorno e accade che uno dei doni più belli è quel lampo di oggettività di visione che talvolta compare, un’intuizione di quella visione pura che subito i sensi fanno prigioniera e vogliono piegare ai loro voleri. Ma quando nel tempo questa oggettività di visione emerge, risulta chiarissimo che non è semplice mantenerla e ci vuole anche molto coraggio, perché è molto meglio raccontarsela certe volte, invece di guardare la realtà per com’è.
Ma nel nostro percorso non possiamo nasconderci che quello è l’unico obiettivo possibile, realmente possibile, cioè avere queste micro-illuminazioni che ci consentono di avere delle micro-oggettività di visione.
Quello che scopro – e non lo scopro guardando il cielo, ma praticando ogni giorno – è che c’è una connessione profonda tra le sensazioni che riguardano il nostro corpo e il nostro comportamento. E la scienza lo conferma. Sarah Garfinkel che è una neuroscienziata britannica e professoressa di neuroscienze e psichiatria all’Università del Sussex e alla Brighton and Sussex Medical School, studia le emozioni da un punto di vista scientifico, ci dice che «Il cuore non batte sempre nello stesso modo e i cambiamenti corporei sviluppano la chiarezza mentale con cui agiamo e con cui pensiamo».
Il cuore non batte sempre nello stesso modo. E noi chiediamo a noi stessi, ma soprattutto agli altri, la coerenza. Ne ho già parlato perché il concetto di coerenza è secondo me è un punto centrale, una pretesa pericolosa, per noi stessi innanzitutto, che riguarda le religioni, certo, e spesso anche lo yoga. Quando parliamo, parliamo di Yama e Niyama, e ci dicono che sono le osservanze. Molti maestri dicono che si comincia da lì.
Nel Tantra invece cominciamo dal tutto ed esploriamo il tutto, e soprattutto osserviamo il tutto e capiamo che la coerenza, né nel corpo né nella mente, può esistere se non con una sofferenza indicibile. Pensate che gli scienziati hanno scoperto che noi ricordiamo solo le cose che ascoltiamo in quell’impercettibile momento che sta tra un battito e l’altro. La memoria è connessa ai nostri corpi, e la memoria è una delle vritti, una delle più dolorose; stiamo sempre a parlare del cuore, di quello che dice il cuore, seguire il tuo cuore, eccetera: ma cosa ci dicono gli altri organi?
Perché sì, è vero che il cuore manda informazioni, ma anche tutto il corpo manda informazioni, anche gli altri organi mandano informazioni. Il Raja Yoga è quella pratica che ci consente di entrare nell’immobilità e di cambiare il modo di ascoltare: non è più un modo superficiale, esteriore, esterno, e nemmeno un modo poetico, romantico, ascoltare il cuore…: noi qui abbiamo la possibilità di ascoltare il fegato, la cistifellea, lo stomaco, l’intestino, il polmone destro e quello sinistro, ascoltare gli effetti del cibo che mangiamo dopo averlo mangiato, non solo nel gusto, ma nei succhi gastrici e via andare.
Sarah Garfinkel ci dice che gli organi hanno un’influenza sulla nostra vita e sulla nostra psiche: «I nostri corpi possono cambiare la consapevolezza cosciente. I cambiamenti corporei possono prevedere le nostre azioni». Ecco perché quando si parla delle cinque vritti, e quando si parla di che cosa è lo yoga, si parla anche dei tre Guna, e cioè sattva, rajas e tamas, cioè i tre elementi che compongono, mischiandosi tra loro in percentuali diverse, milioni di volte nella nostra vita, la nostra stessa realtà mentale e fisica, che creano il nostro benessere e il nostro malessere. Nasciamo e viviamo con un carico da 90 dentro di noi, fatto di esperienze e memorie, presenti passate e secondo l’Oriente, addirittura trapassate.
Praticare yoga significa fare i conti con questo, uscire dal giudizio e dalle pretese nei nostri confronti. Siamo quello che siamo, e possiamo giocare con i giocatori che abbiamo, non possiamo pretendere di acquistare dei fenomeni se non ce li abbiamo dentro. C’è chi ha fatto una vita da mediano come Gabriele Oriali ed è passato alla storia. Non si può essere tutti Baggio o Messi. Questo ancora una volta vuol dire uscire dall’illusione, vuol dire osservare i sintomi dei nostri Guna, capire quando l’uno domina gli altri, agire sulla consapevolezza più che sulla durezza e sulla disciplina. Ascoltarsi, osservare, trasformare la debolezza in forza, la pigrizia in azione. E dire «Grazie» per ciò che c’è.
Questo vuol dire entrare in contatto con l’elemento più importante della nostra mente, la buddhi, l’intelligenza, quello che ci consente di fare la discriminazione, quella che nel suo fulgore fa risplendere sattva e domina docilmente rajas e tamas.
Il primo samadhi «è il livello più alto del pensiero discriminativo». Ma lo yoga non finisce lì, si parla di nirodha e di samadhi e nella pratica, anche raggiunta una buona discriminazione, si capisce che è possibile andare oltre. Ecco perché è sbagliato dire che il fine di una pratica meditativa, di una ricerca interiore, è quello di smettere di pensare.
La liberazione dalla sofferenza causata dalle nostre emozioni e dai pensieri non si realizza nel castrarli, ma nel coraggio di abbandonarli, di lasciarli andare, di non trattenerli come invece facciamo noi durante tutta la nostra giornata, proprio per paura di non esserci più, di perdere i riferimenti della nostra mente. Questa è la rivoluzione copernicana del Yoga: noi non siamo i nostri pensieri e possiamo lasciarli andare.
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