Quasi quasi mi butto sul classico… E prima ancora di leggermi direte: «Ma ti credo Gianni ha quasi 70 anni che vuoi che faccia? Difende il classico no». Parte così: una frase mezza sospirata davanti al menu del ristorante («Prendo una carbonara, ma quella vera»), al catalogo Netflix («Basta, mi riguardo La dolce vita»), o nella playlist di Spotify («Battisti è fantastico, Lucio è di un altra categoria»). Nel 1971 Battisti era tutt’altro che classico ma lo è diventato suo malgrado e per nostra fortuna lo è oggi (forse questa cosa lo farebbe anche incazzare: «Ma com’è che c’ho messo tanto?»). La verità è che “noi classic” non siamo soli. Sempre più persone – dalla Generazione X fino alla Z (che pare più profonda di quanto si pensi) “stanno tornando al classico”. Non per snobismo, ma per sopravvivenza culturale. In un mondo che corre, scorre, e ci lascia storditi da mille novità al secondo, il classico è diventato una scelta zen. Un atto sovversivo. Quasi punk.
Classico: antistress certificato
Viviamo nell’epoca del “tutto-e-subito-ma-non-mi-resta-niente”. Ogni giorno, su Spotify, spuntano 100.000 nuove canzoni (boh, ma non ne avevamo già troppe?). L’algoritmo ci propone roba fresca, un mix di tutto il “brand new” possibile, spesso esagerato. Dopo un po’ però la gente si “rompe”. E allora via di vintage, di Morricone per calmarsi, di Brian Eno per estraniarsi, di Mina per cantare con lei, di Frank Sinatra-The Voice più imbattibile di sempre.
Dante batte TikTok (a volte)
Non ci credi? Guarda i numeri. I podcast più ascoltati in Italia? Quelli che parlano di filosofia greca, di storia, di letteratura. Gente che si addormenta con Omero o Shakespeare o le avventure del Commissario Maigret di Simenon. Così Il classico piace, sopravvive. Piace anche ai giovani. Forse perché, paradossalmente, è più radicale di tanta roba “innovativa”. Il classico ti parla dritto, senza filtri, senza balle, senza emoji. È nudo. Come una statua greca. Il nuovo è brutto? O ci siamo abituati male? Facciamoci la domanda scomoda: il nuovo fa schifo? Risposta diplomatica: ovviamente no, non sempre. Ma spesso il nuovo è pigro, frettoloso, fatto per acchiappare like e poi sparire. A volte sembra scritto da ChatGPT dopo un paio di caffè. Poi ci sono eccezioni clamorose. Quando il nuovo è fatto bene, si vede che dietro c’è il classico: struttura, forma, anima. Il classico è il lievito della cultura. Senza lievito, tutto si sgonfia.
Moda, cibo, musica: il ritorno delle fondamenta
La carbonara. I jeans Levi’s 501. L’opera. Romeo e Giulietta, Il risotto giallo fatto da Dio in persona. Il boom del vinile (sì, hanno superato i Cd), il ritorno del libro cartaceo, la moda che riscopre la sartoria. Cosa hanno in comune? Non passano di moda. Sono i Nirvana del gusto, il Picasso della cucina, il Rossellini delle serie tv. La gente oggi cerca questo: cose fatte bene. Con un ritmo umano, con una storia, con un’anima. Non si tratta di nostalgia: si tratta di cercare un senso. La cultura del “fatto bene” ha una chance. Nel rumore del “tanto per”, il classico è sinonimo di fatto bene. Durante la pandemia, il boom dei cuochi casalinghi ha rilanciato la cucina tradizionale. Il ragù, la pasta tirata a mano, la lievitazione lenta. Come se, chiusi in casa, ci fossimo ricordati che il tempo speso bene non è mai perso. E anche nella musica, molti produttori stanno tornando a registrare in analogico, con strumenti veri, imperfezioni vere. Billie Eilish, che adoro, e suo fratello Finneas hanno vinto Grammy producendo da una cameretta, usando pochi suoni ma pieni di anima.( il metodo classico). In un mondo dove la novità è spesso una scorciatoia, il classico è una strada lunga ma panoramica. Un nuovo umanesimo fatto di bellezza solida, fatta bene, che sa resistere e non si ossida. Il classico è il nuovo futuro? No, non sarebbe giusto. Il classico non è vecchio. È come un vino rosso: migliora, si evolve. E può dire cose nuove a ogni sorso. “La tradizione classica è un fuoco sempre acceso, che oggi più che mai, abbiamo bisogno di riaccendere, non di archiviare. Quindi? Mi butto sul classico? Sì, buttati. A braccia aperte. Ma non buttarti da nostalgico. Fallo da esploratore, da curioso. Leggiti Cesare Pavese, guardati Michelangelo Antonioni mentre giri distrattamente su Instagram. Cucina alla maniera della nonna. Mischia tutto con amore e ironia e sentirai il sapore del basilico. Perché il classico fa fiorire il cervello e ne abbiamo un gran bisogno.
Certi artisti classici non sapevano di esserlo o di poterlo diventare
Parliamoci chiaro: molti dei nostri “classici” preferiti non erano affatto educati, eleganti o ben pettinati. Anzi. Miles Davis rispondeva male alle interviste e suonava come se stesse sempre litigando con il mondo. John Coltrane partiva per viaggi cosmici da cui a volte nemmeno tornava. I Led Zeppelin urlavano elettrico in faccia alla borghesia, e Dylan – prima di diventare Premio Nobel – era “quello che scopriva il senso mentre tutti facevano le rime”. E poi i poeti maledetti americani: Kerouac, con la sua macchina per scrivere e la sua strada infinita; Ginsberg, che urlava «Howl!» alla Luna. Il punto è: il classico non nasce per forza col completo grigio e laurea in lettere. Spesso nasce dal caos, dalla rabbia, dalla voglia di dire qualcosa che resti. E oggi? Fedez mi dicono stia già maliziosamente passando di categoria… Dopo Orietta Berti quest’anno finirà in compilation con Nicola Di Bari? Scherzo ma “ricordare” gli Anni 60 non è solo un omaggio: è un vero e proprio codice produttivo che fa vibrare le hit di oggi. Parlando di Yoga, seguo solo maestri classici di tradizione, non mi appassionano gli Yoga che fanno dimagrire, ecco. Fidiamoci piùdi noi quindi e seguiamo il nostro istinto “classic”. Come diceva Jack Kerouac: «Segui la tua musa ciecamente». Nessuno vi dirà che siete vecchi.

Il leggendario Yogi immortale è l’essere umano che completa l’evoluzione con la padronanza delle energie interiori e la realizzazione del Sé. E molte scuole tamil sostengono che il Kriya Yoga, reso famoso da Yogananda, abbia radici nel “Siddha Yoga” tamil...
Questo è un po’ il manifesto dello yoga che pratico e che insegno da quasi trent’anni. Lo yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo. La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa. La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento.
Lavoro con la voce da cinquant’anni. È stata la mia compagna, la mia arma gentile, il mio specchio: la radio, la tv, il canto. Con la voce ho raccontato e ascoltato, ho cercato emozione, ritmo, verità. Ma più la uso, più capisco che la voce non è solo suono: è respiro che si manifesta, corpo che vibra, anima che prende coraggio e decide di farsi sentire. È la forma più diretta di presenza
La speranza di una donna che è scappata dall'orrore e ha cercato un futuro con i suoi figli su un'isola della Grecia. Ma ha lasciato l'amore della sua vita e non vuol sapere che lo rivedrà solo come nuvole nel cielo...
Per invecchiare meglio bisognerebbe leggere più libri sulla biologia e guardare meno pubblicità. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Perché i condizionamenti sociali sono enormi. Ma a prescindere dallo sviluppo tecnologico che l’umanità ha raggiunto, le domande sulla vita e sulla morte rimangono le stesse. Perché nasciamo, perché moriamo? Ai quesiti esistenziali senza tempo rispondiamo con trapianti e i ritocchi, mentre dovremmo imparare a meditare...
Mahavatar Babaji, il guru di Lahiri Mahashaya che ha portato il Kriya Yoga in tutto il mondo, è il protagonista di un nuovo libro scritto da Jayadev Jaerschky. Che ci spiega chi è quest'essere leggendario che Yogananda descriveva come «simile al Cristo»



