L’ultima parte del capitolo 3 della Bhagavad-gītā contiene uno degli insegnamenti più potenti di tutto il testo. A dire il vero, se ci si concentrasse solo su questo, si otterrebbe già gran parte dei benefici che derivano dall’applicazione degli insegnamenti di Krishna. Krishna sta per introdurre il più grande nemico dell’essere umano, sollecitato da una domanda cruciale di Arjuna. Ma poco prima sgancia un’affermazione che, da sola, basterebbe a farci riflettere per anni:
È assai meglio compiere il proprio dovere (sva-dharma), anche se in modo imperfetto,
che compiere perfettamente quello di un altro.
Soccombere svolgendo la propria occupazione è meglio che assumersi l’impegno altrui,
perché seguire il percorso di un altro è pericoloso. (3.35)
Ora, cosa significa “proprio dovere”? A prima vista sembra il solito moralismo calato dall’alto per controllare le masse. Non credi? E invece no. In queste poche righe Krishna rivela uno dei più grandi segreti della felicità. O, visto dal lato opposto, il segreto per evitare disastri. Krishna anticipa di millenni i corsi moderni di sviluppo personale, di auto-consapevolezza e di “successo” che oggi vanno tanto di moda. I più superficiali dicono: «Puoi ottenere tutto ciò che vuoi, basta desiderarlo e impegnarti abbastanza». Ma secondo Krishna (e anche secondo i formatori seri ed esperti) questa è una illusione. La chiave non è “volere qualsiasi cosa”, ma riconoscere il proprio sva-dharma: il dovere personale, la propria missione della vita, la via naturale che ci appartiene. La parola dharma è ricchissima di significati e non si può tradurre in modo univoco nelle lingue occidentali: ordine cosmico, giustizia, dovere, armonia, vocazione, funzione propria…
Qui però c’è un dettaglio decisivo: il prefisso sanscrito sva, che significa “proprio”, “suo”. Non il dovere in generale, ma il tuo, il nostro. Ognuno di noi nasce con caratteristiche uniche, fisiche e mentali. Questo implica che alcune cose ci riescono con facilità, altre no. In alcune situazioni procediamo quasi senza sforzo, altre sono invece un pantano che ci rallenta e ci fa soffrire. Ognuno di noi porta con sé una particolare combinazione di corpo-mente, e di conseguenza ci sono “occupazioni” e ruoli che ci si addicono più di altri. Questo è evidente già osservando attentamente le propensioni di ogni bambino quando non è bloccato da genitori, parenti o scuola e viene lasciato libero di esprimersi. Mi fermo qui per ora, perché nel capitolo 4 tutto questo verrà approfondito per bene e scoprirai come iniziare un percorso per riconoscere i tuoi talenti e come sfruttarli al meglio. Promesso: sarà illuminante. Anche perché, se messo in pratica, può trasformare la vita dall’oggi al domani. E no, non sto esagerando: potrebbe persino rimettere in sesto il mondo intero.
Arjuna chiese: Che cosa spinge una persona a peccare anche contro la sua volontà, come se vi fosse costretta? (3.36)
In questo contesto, “peccare” significa andare contro il proprio sva-dharma, agire in contrasto con la propria natura e l’ordine universale, inseguendo lucciole scambiate per lanterne. Pensiamoci un attimo: perché mai una persona dovrebbe affannarsi per fare ciò che spetterebbe a qualcun altro, caricandosi così di tensione, stress e ansia? La risposta è semplice: perché desidera di più dalla vita. Più soldi, un’auto migliore, una casa più grande, una vita più agiata. I sensi, se stimolati senza misura e senza discernimento, possono trasformarsi in tiranni. Non generano dipendenza solo le sostanze che introduciamo nel corpo dall’esterno, ma anche certe abitudini di pensiero e il nutrimento costante di emozioni non elaborate alla luce della conoscenza. È un meccanismo che abbiamo già visto: è come versare benzina sul fuoco. Non facciamo altro che alimentarlo, fino a vederlo divampare sempre di più.
Il Signore rispose: è soltanto bramosia.
Nasce dal contatto con l’influenza materiale della passione, poi si trasforma in rabbia
ed è il peccato che tutto divora, il più grande nemico del mondo. (3.37)
Come il fuoco è coperto dal fumo, lo specchio dalla polvere e l’embrione dall’utero,
così l’essere è ricoperto da diversi strati di bramosia. (3.38)
In questo modo, o Arjuna, la coscienza pura dell’essere viene coperta dalla sua eterna nemica,
la bramosia insaziabile che brucia come il fuoco. (3.39)
I sensi, la mente e l’intelligenza sono i luoghi in cui si annida la bramosia,
che copre così la vera conoscenza dell’essere e lo confonde. (3.40)
La parola sanscrita tradotta con bramosia è kāma. Kāma può significare lussuria, voracità, il desiderio insaziabile di avere sempre di più, l’incapacità di accontentarsi e di essere grati. E sappiamo già che la gratitudine è uno degli ingredienti fondamentali della felicità. Se non riusciamo a provare gratitudine, significa che siamo in balia di kāma. Questo però non significa che Krishna ci inviti alla pigrizia o all’indolenza di chi non si impegna perché “bisogna accontentarsi”. Invece è bene puntare sempre all’eccellenza nel proprio sva-dharma, fare del proprio meglio, ma senza attaccamento al risultato. Questo è il vero distacco: agire al massimo delle proprie capacità e lasciare che i frutti arrivino come devono.
Un maestro, un giorno, disse al suo discepolo che voleva mostrargli qualcosa di straordinario, capace di cambiargli la vita: «Domani svegliati presto e indossa scarponcini adatti a una lunga passeggiata in montagna». Il mattino seguente partirono insieme. Durante il cammino parlarono della vita e degli insegnamenti della Bhagavad-gītā. Il discepolo era felice: i panorami erano splendidi, il tempo passato col maestro era prezioso, e la mattinata sembrava perfetta. Dopo ore di salita arrivarono su un crinale. Il panorama era mozzafiato. Il maestro allora disse: «Ecco, siamo arrivati!». Il discepolo lo guardò, confuso: «Cosa intendi? Il panorama?». «No» rispose il maestro, «quel sasso lì». Il discepolo rimase interdetto: «Come? Abbiamo camminato così tanto… solo per un sasso? Ma è un sasso qualunque!». «Sì» disse il maestro, «e allora? Qual è il problema? Perché ora sei deluso? Fino a un attimo fa eri felice, entusiasta come un bambino, pieno di speranza e leggerezza. Che cosa è cambiato?». In quell’istante il discepolo ebbe una rivelazione profonda, e con le lacrime agli occhi per l’emozione disse: «non è la meta che rende felici, ma il viaggio». Il maestro lo fissò negli occhi. Si leggeva la gioia sul suo volto: il discepolo aveva appena compreso una delle lezioni più importanti della sua vita.
Questo aneddoto ci mostra un punto fondamentale: il vero antidoto a kāma, la bramosia insaziabile, è il distacco. Non distacco come rinuncia arida, ma come capacità di fare per bene il nostro “dovere” durante il viaggio, momento dopo momento, senza ridurre tutto all’attesa spasmodica di una meta finale. Quando si vive così, la pressione della bramosia cala, perde forza, perché non si è più proiettati nel futuro a inseguire ciò che manca, ma si vive bene ciò che già c’è, rendendolo piacevole perché “ci mettiamo il nostro talento, il nostro tocco magico”. È come quando si mangia: se si ingoia in fretta per riempirsi, resta solo pesantezza e insoddisfazione; se invece si mastica con cura, prendendosi il tempo, ogni boccone diventa più saporito, si digerisce meglio e soprattutto ci si nutre davvero. Vivere così significa imparare a rallentare e vivere con pienezza e consapevolezza l’esperienza. Ci si sente più sazi, più stabili, più in pace. E proprio questa soddisfazione profonda è ciò che neutralizza la fame senza fine di kāma.
Il capitolo 3 si conclude con un insegnamento chiaro e diretto, che non lascia nessun dubbio:
I sensi sono superiori alla materia inerte;
superiore ai sensi è la mente e superiore alla mente è l’intelligenza,
ma ancora più elevato è il sé, l’anima. (3.42)
Sapendo che il sé trascende i sensi, la mente e l’intelligenza, rendi stabile il sé attraverso il sé (la mente con la conoscenza del sé) e sconfiggi questo nemico insaziabile, la bramosia. (3.43)
Ecco dunque che tutto parte dalla conoscenza: sapere chi siamo davvero, distinguere la nostra natura esterna da quella interna. Questa consapevolezza ci fornisce gli strumenti per agire con chiarezza. L’azione allora diventa illuminata, decisa, stabile: non più un vagare incerto, ma un muoversi fondato sulla comprensione del mondo, sia fisico che metafisico.
Krishna non intende lasciare ulteriori dubbi ed è pronto a rivelare una verità capace di ribaltare completamente i punti di riferimento di Arjuna. E il capitolo 4 si apre con un lampo, un inizio dirompente che cambia tutto.

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Questo è un po’ il manifesto dello yoga che pratico e che insegno da quasi trent’anni. Lo yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo. La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa. La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento.
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