Alla maggior parte di noi è sicuramente capitato di soffrire di mal di testa, di svegliarsi per diverse notti di seguito alle tre di notte e non poter più prendere sonno, oppure di sentirsi ansiosi, tesi e arrabbiati senza apparente motivo. Probabilmente soffriamo della “sindrome della papera”.
Avete presente la classica immagine della papera che scivola leggiadra sulla superficie del lago? In realtà per rimanere a galla, e apparirci imperturbabile, sta facendo uno sforzo bestiale con le zampe. Questo è quello che capita alla maggior parte di noi. Di fuori appariamo magnifici, ma internamente siamo una nave in mezzo alla tempesta. Leggendo di questa sindrome, che pure non rientra in alcun manuale ufficiale dei disturbi psichiatrici, mi è tornato in mente un vecchissimo episodio della serie Desperate Housewives in cui una delle protagoniste, la magnetica Bree Van De Kamp, viene istruita dalla madre – quindi il contesto è quello dell’America degli Anni 50- a indossare sempre una maschera elegante e sorridente, specialmente quando s’incontrano delusioni o avversità. Non importa quanto tu sia devastato dentro, ciò che importa è la tua immagine, come ti presenti al mondo.
Anche nel film Baaria di Tornatore c’è una scena in cui la mamma della protagonista, Mannina, soffrigge mezza cipolla per far andare in solluchero olfattivo il vicinato. Poi esce di casa tenendosi la pancia, simulando di aver mangiato troppo. In realtà in quella casa stavano morendo letteralmente di fame, ma guai a farlo sapere in paese. Quando guardiamo impartire questo tipo di “insegnamenti” così disfunzionali inorridiamo, eppure, riflettendoci un poco, quanta energia stiamo in realtà mettendo in campo in questo momento per sbattere le nostre zampette sotto l’acqua? Quanto siamo al riparo dai condizionamenti sociali, o meglio, social? Direi che la maggior parte di noi è messa assai peggio delle care Bree e Mannina. E un conto è dover “ingannare” il vicinato, un conto è doversi rappresentare costantemente al meglio su questo palcoscenico perenne che sono i social media.
Capiamoci, una certa “corazza” è indispensabile per affrontare il mondo, che è assai complesso e spesso crudele. Anche la compianta Elisabetta II, che di disastri mediatici ne ha affrontati parecchi, aveva come motto «never complain, never explain», tirare dritto e mai dare soddisfazione. Ma un conto è padroneggiare le proprie emozioni un conto è quando, presi dal meccanismo difensivo, facciamo della corazza la nostra pelle e perdiamo il riferimento con chi siamo davvero. Non è infrequente, allora, assistere a momenti di autentico cortocircuito, nei quali ci mostriamo insensibili, cinici ed egoisti non con i “nemici” e i detrattori ma con chi amiamo di più. La maschera ha preso il sopravvento, la nostra centratura è saltata.
Nello yoga avidya è il primo dei klesa, le afflizioni. Confondere la propria vera essenza, che è trascendente, con l’involucro materiale e sensoriale è la prima causa della sofferenza umana. Ma che succede allora se oltre a ignorare questa indicazione primaria ci costruiamo un ulteriore involucro, una magnifica maschera da mostrare al mondo? Succede che «l’acqua scarseggia e la papera non galleggia», come suggeriva Riccardo Pazzaglia qualche decade fa, in un noto programma televisivo. Cioè quando le aspettative esterne e interne diventano troppo pressanti anche le anatre più dotate smettono di nuotare.
Una delle più frequenti reazioni riguarda il lavoro. È il cosiddetto quiet quitting: mollare il lavoro, mollare la grande città, il caos, lo stress da performance, alla ricerca di nuove dimensioni lavorative lontane dalla morsa dei condizionamenti. Non più vivere di lavoro, ma lavorare e avere anche tempo per vivere una vita più piena. Negli ultimi due anni moltissime persone hanno dato le dimissioni dal lavoro. La voglia di tirare i remi in barca non ha riguardato solo la Generazione X (’60-’80) e i Millennials (’81-’95) ma anche la Generazione Z (’95-2010) che, per motivi di giovine età, non dovrebbe certamente aver maturato il burn out, eppure compie scelte in questa direzione.
Ma che succede se uno sa da cosa fugge, ma non ha chiaro verso cosa andare? Sono guai. E allora da dove partire? «Conosci te stesso» diceva Socrate, e lo Yoga non fa che confermare questa massima. Per gli induisti è essenziale conoscere il proprio svadharma, il proprio posto nel mondo, il proprio dovere.
Lo Yoga insegna a cercare dentro di sé le risposte ai quesiti più importanti, a sapersi interrogare con sincerità (satya) imparando ad ascoltare i propri bisogni più profondi. Ma anche a prendersi in carico, a non dimenticare le proprie responsabilità, a smascherare le lusinghe dell’ego (asmita) che portano fuori strada, e a mettere tutto nella giusta prospettiva, arrendendosi al divino (isvarapranidana). Attraverso la pratica di Yoga s’impara ad agire senza creare karma, dunque senza nuocere, per quanto possibile, a se stessi e agli altri. Non ci resta che selezionare con cura le paperelle da frequentare e scegliere il laghetto giusto su cui scivolare.

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