Nel suo editoriale, Mario Raffaele Conti parla di come «stiamo vivendo momenti terribili», in cui «la violenza verbale, quella fisica, la crudeltà mentale (…) arrivano fino alle nostre case» e «la rabbia del mondo entra nelle nostre mura…». Mario spiega come, a supporto di queste sentite preoccupazioni, svolga un ruolo fondamentale «non smettere di fare andare il cervello, leggere, confrontarci con le idee».
Collegandomi a quanto detto da Mario, vorrei ricordare una dichiarazione rilasciata dalla famosa filosofa del ‘900 Anna Arendt:
«Mentire continuamente, non ha lo scopo di fare credere alle persone una bugia, ma di garantire che nessuno creda più in nulla. Un popolo che non sa più distinguere tra verità e menzogna, non può distinguere tra bene e male. E un popolo così, privato del potere di pensare e giudicare è, senza saperlo o volerlo, completamente sottomesso all’impero della menzogna».
Questo pensiero della Arendt era rivolto a cercare di trovare spiegazioni su come e in quale misura il popolo tedesco fosse stato coinvolto direttamente e indirettamente nelle idee e nella realizzazione pratica del Nazionalsocialismo. Il frutto del lavoro e della ricerca di storici e analisti che da più di ottant’anni hanno studiato le ideologie, le società e la politica nazionale e internazionale, sono in grado da sole di fornire ogni chiave di lettura necessaria a comprendere la maggior parte dei problemi che viviamo. La mia personale riflessione prende spunto come di consueto da uno dei concetti più importanti della filosofia vedica indiana, il concetto di identificazione personale. Nell’Induismo ahamkara è il falso ego, l’identificazione con il corpo e la mente. Nella Chaitanya-charitamrta, madhya 13.80, si legge:
«nāhaṁ vipro na ca nara-patir nāpi vaiśyo na śūdro nāhaṁ varṇī na ca gṛha-patir no vanastho yatir vā kintu prodyan-nikhila-paramānanda-pūrnāmṛtābdher gopī-bhartuḥ pada-kamalayor dāsa-dāsānudāsaḥ»
la cui traduzione significa:
«Non sono un brahmana (un sacerdote), non sono uno ksatriya (un guerriero), non sono un vaisya (un mercante) o un sudra (operaio). Non sono un brahmacari (uno studente che pratica la continenza), non sono un grhasta (un capo famiglia), un vanaprastha (che si ritira dalla vita sociale con la moglie) o un sannyasi (un rinunciante). Mi identifico solo come il servitore del servitore del servitore dei piedi di loto di Sri Krishna, il sostentatore delle gopi. Egli è come un oceano di nettare ed è la causa della beatitudine trascendentale universale. Egli esiste sempre con splendore».
Ora, tralasciando tutti gli aspetti eminentemente devozionali che sono particolarmente evidenti nella conclusione del verso, questo mantra ci dice che l’espressione più alta e compiuta della ricerca interiore si trova nella capacità di abbandonare qualsiasi identificazione che ha come base l’esistenza materiale. Questo include gli aspetti etnici, sessuali, culturali, politici e via dicendo. Come molti concetti propri della cultura indiana è un concetto dirompente e sconvolgente e meno afferente all’idea di individuo compiuto che ogni società o aggregazione umana potrebbe concepire. Nella cultura vedica indiana la natura dell’ego, che orienta ogni azione esercitando il controllo sul vero sé, si esprime in principio con il desiderio:
- Dalla mancata soddisfazione del desiderio nasce l’ira.
- Dall’ira sorge la perdita della memoria.
- Dalla perdita della memoria nasce l’identificazione e l’essere si vede incatenato alle reazioni delle sue azioni.
Questi semplici passaggi delineano le basi della filosofia indiana che nasce in una cultura fortemente strutturata a livello sociale, politico e religioso, ma che tuttavia riesce a concepire l’idea che l’ordine costituito deve essere infine abbandonato, per dare spazio al rapporto diretto e innato tra l’anima e la sua fonte originale.
Citando Anna Arendt si è parlato della menzogna. La menzogna, come comprensione distorta della realtà, è alla base stessa della natura dell’ego, che sorge per il desiderio di godere separatamente dal tutto e che identifica l’essere con le sue azioni. L’ira o la rabbia, il desiderio incontrollabile che conduce alla violenza e l’identificazione con ciò che si desidera, sono elementi su cui le scritture indiane costruiscono interi racconti epici e su cui alcune delle maggiori Upanishad, i testi filosofici, concentrano le loro spiegazioni. Così, da queste stesse scritture emerge come in origine l’anima, che ha desiderato vivere separatamente dal tutto per identificarsi con la sua esistenza materiale, vita dopo vita, acquisisce diverse identità e gode degli effetti positivi e negativi del suo Karma.
Se ci fermassimo a ragionare sul contesto storico, culturale dei popoli che hanno elaborato queste idee, dovremmo scoprire che nella maggior parte delle aggregazioni umane del mondo, l’individuo non rappresenta il centro della società. L’individuo esiste come parte di una comunità di cui accetta le regole e per la quale garantisce la sua esistenza come parte integrata. Da ciò ne deriva il modo di vivere e sentire la religione, la filosofia e la spiritualità. Non da meno la politica, la società, la “nazione”. La famiglia che partecipa di una tribù o clan che forma il gruppo sociale di appartenenza che da vita all’idea di popolo, legato da regole scritte e non scritte, ereditarie e tradizionali, che rendono i singoli individui importanti nel complesso della loro appartenenza al gruppo culturale e religioso e non la loro individualità. Questo implica ragionare non più come singoli, ma come aggregati. I bisogni, le idee, la visione del mondo, infine le libertà individuali sono vincolate a questa appartenenza.

Per noi, queste differenze richiedono un enorme sforzo di comprensione per poter essere colte e accettate. Così noi, da occidentali, abbiamo importato questa o quella filosofia, come lo Yoga, l’abbiamo ritagliata e calata sui nostri gusti ed esigenze, le abbiamo attribuito nuove utilità o finalità, le abbiamo arricchite della nostra peculiare capacità di essere utili a svagarci o divertirci, competere o esibirci, significare altro.
Un esempio di quale sia l’atteggiamento diffuso che rivolgiamo alle attività che realizziamo è quello delle vacanze. Andiamo in luoghi esotici, vivendo però nella comodità e nel lusso, anche minimo, facendo le stesse cose che faremmo qui e tornando esattamente come eravamo prima. Non conosciamo nulla della cultura o delle persone di quei Paesi ma abbiamo viaggiato. Nello Yoga similmente, riflettiamo sovente lo stesso atteggiamento, praticando esercizi, mimando atteggiamenti sacri o recitando mantra di cui non conosciamo nulla, non assorbiamo nulla e non diamo niente di noi, rimanendo come eravamo.
L’ imprinting familiare, sociale, etnico, culturale, religioso che si ricevono dalla nostra nascita sono complessi meccanismi che intervengono sul funzionamento del nostro cervello. Tuttavia, sulla base di queste “impostazioni” acquisite, si potrebbe dire che ogni individuo cerca di elaborare la propria personalità, le proprie convinzioni e i propri modi di sentire per affrancarsi e al contempo integrarsi al suo contesto sociale. Il mio Maestro ripeteva sovente che Maya, l’illusione, è come una sorta di mente mondiale. Cosa realmente ci definisce come individui?
La totalità dei nostri attaccamenti ed emozioni, trasmesse dai geni per generazioni che hanno creato il modo in cui viviamo, il modo in csenviviamo le esperienze per elaborare il modo in cui conosciamo il mondo. Srila Gurudeva la chiamava mente o onda universale. Nelle scritture si narra come da Maya si genera la coscienza individuale condizionata, che a sua volta genera la coscienza sociale in un filo diretto dal passato al presente. Maya funge da controllore della realtà nella quale siamo tenuti a sottostare, separati dalla coscienza reale. Nella nostra società occidentale, in un lungo processo storico evolutivo, l’individuo, il singolo, si è trovato a diventare il centro della concezione peculiare della politica e della società.
La nostra narrazione storica, ha stabilito come la nostra cultura e la nostra società siano le più evolute, la più illuminate, tanto da essere la cifra di come dovrebbe essere il mondo. Questa arroganza ci porta ad ignorare completamente come vivano gli altri, quale cultura possiedano, quali idee abbiano elaborato, quali valori o stili di vita ambiscano. A noi basta sapere che siamo lo stadio evolutivo più avanzato, che ha generato la democrazia, il progresso scientifico ed economico. Questo pensiero velato ci permette di credere che gli altri siano inferiori, meno evoluti, che se avessero la possibilità sarebbero o vorrebbero essere come noi. Condizionati da queste strutture mentali, come possiamo comprendere ciò che è diverso da noi?
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Questo è un po’ il manifesto dello yoga che pratico e che insegno da quasi trent’anni. Lo yoga si occupa della domanda essenziale che abita ogni essere umano. Del mistero del vivere, del mistero dell’essere coscienti. Del “chi” siamo e “come” siamo. La parola “Yoga” indica uno stato, uno stato fondamentale della coscienza. Non è un percorso che conduce da un luogo a un altro, e neppure una ricerca di benessere. È la possibilità di essere consapevoli di essere vivi e di come lo siamo. La possibilità di sentirsi espressione di una realtà indivisa. La pratica di Yoga si fonda sull’Osservazione e sul Cambiamento.
Lavoro con la voce da cinquant’anni. È stata la mia compagna, la mia arma gentile, il mio specchio: la radio, la tv, il canto. Con la voce ho raccontato e ascoltato, ho cercato emozione, ritmo, verità. Ma più la uso, più capisco che la voce non è solo suono: è respiro che si manifesta, corpo che vibra, anima che prende coraggio e decide di farsi sentire. È la forma più diretta di presenza
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