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  • Immagine del redattoreAmalia Cornale

Lo Yoga e il tiro con... la pistola (ad aria compressa, per carità!)

Vi stupirete, eppure il poligono e la disciplina indiana hanno punti in comune


Molti si stupiscono nel vedermi al poligono di tiro alle prese con pallini e pistole. «Ma come, tu che insegni yoga»? Come a sottolineare che quello non è un posto adatto a me, non è coerente con la mia direzione personale e professionale.

L’idea romantica del maestro yoga imperturbabile, che si nutre di aria, distaccato dagli interessi ordinari ha spesso la meglio sul fatto che siamo nel 2023, in Europa, e non in un eremo himalayano nel Medioevo. Ma tant’è.

Mi va di spiegare.


Sì, vado al poligono di tiro. Sì, ho una pistola. Ma allora ahimsa, la non violenza? Tranquilli, la non violenza, il primo dei “grandi voti” dello Yoga classico, è salvo. Non uccido nessuno, al massimo il mio ego, le mie vrtti, i miei vortici mentali, altrimenti sparo male. E m’incavolo pure.

La mia pistola è ad aria compressa, il suo compito è sparare pallini del calibro di 4,5 millimetri verso un bersaglio di cartone, posto a una distanza di 10 metri. Questo è uno sport, con tanto di medaglie e campioni nazionali. Io non lo pratico a livello agonistico ma a livello amatoriale, perché ho iniziato da grande, ho poco tempo e sono consapevole che questa disciplina, come e più di altre, necessita non solo di costanza ma anche di dedizione assoluta. E la dedizione assoluta la puoi riservare solo a ciò che combacia perfettamente con la tua natura più profonda. Il fatto che questa, nel mio caso, coincida con lo yoga non mi impedisce, però, di mantenermi aperta alle tante sfumature di grigio che circondano ogni cosa.


Sono tanti i punti in comune fra lo yoga e il tiro a segno. Entrambi necessitano di una guida esperta ed entrambi sono percorsi individuali, nei quali restiamo soli con noi stessi, i nostri fantasmi e le nostre potenzialità.

Così come lo yoga, anche il tiro a segno si nutre di un certo tipo di concentrazione che può sconfinare nella meditazione. Avete presente il sutra I.12 di Patañjali : abhyāsa vairāghya tannirodha? (traduzione: lo spegnimento dei vortici mentali si ottiene anche con una ferrea disciplina e con il distacco dal risultato delle azioni). Secondo me riguarda tanto il tiro a segno quanto lo yoga. E ora vi spiego perché.


Sia il tiro a segno che lo Hatha Yoga ricercano il gesto perfetto, la tecnica impeccabile, l’esecuzione rigorosa. In entrambe le discipline bisogna mettere a posto tante cose prima che il grilletto scatti o prima di entrare in asana.

Per sparare un colpo che vada a colpire se non proprio il centro, cioè il 10, quantomeno la parte nera della sagoma, cioè un cerchio di 6 cm di diametro, c’è una preparazione molto precisa. Innanzitutto bisogna posizionarsi correttamente dietro la linea di tiro, ovvero mettersi in una posizione simile a quella del guerriero, virabhadrasana, aprendo il corpo lungo il piano laterale. Se si spara con la mano destra bisogna scaricare la spalla sinistra ponendo la mano sinistra dentro una cinta o una tasca. Si indossa una fascia in testa, come quella dei tennisti, con un paraluce che copre l’occhio sinistro, in modo da eliminare la tensione muscolare necessaria a tenerlo serrato per tutta la durata dell’allenamento. Si carica l’arma a salve e si fanno diversi tiri a vuoto, mirando sulla sagoma e simulando lo sparo. Ogni tiro, a fuoco o a salve, si chiama “alzata” e impegna muscolarmente e mentalmente l’atleta, al punto che ogni allenamento ha un numero massimo di alzate che si possono fare.


Dopo le alzate a salve si passa al cosiddetto “fuoco”, anche se la pistola funziona ad aria compressa e non c’è nessuna combustione di polveri. Si regola la pistola sul fuoco, si inserisce un pallino e… inizia il duello. Come negli asana dello yoga la posizione del corpo deve essere mantenuta stabile. Se si spara bene non si dovrebbero spostare i piedi da terra neanche di un millimetro, per non perdere la centratura. Si alza l’arma e si segue il percorso della canna verso il bersaglio, finché non si realizza l’allineamento degli organi di mira sulla sagoma. Bisogna mettere in linea le due tacche laterali e la tacca centrale della pistola in relazione alla sagoma. In soldoni bisogna guardare il mirino allineando tre elementi, e lasciare che il colpo parta da solo, nell’attimo in cui il braccio ha portato l’arma al punto in cui mirino e bersaglio sono in una precisa posizione.


Paradossalmente se guardi il bersaglio sbagli. Bisogna guardare il mirino tenendo conto del bersaglio, ma a un certo punto il bersaglio deve cessare di essere l’oggetto osservato e deve diventare un contenuto mentale sottogiacente. Giunti lì, tutta l’energia va dirottata sugli organi di mira. Si rimane in “punteria” per alcuni secondi, finché il colpo parte. Se, dopo 12-15 secondi il colpo non è partito bisogna “rinunziare” e abbassare l’arma. Se insisti e rimani in punteria al 99% sbagli.

Considerate che la pistola pesa quasi un chilo e mezzo, e quindi cercare il punto perfetto per diverse decine di secondi, fra alzata e punteria, non è impresa da poco.


Ci sono ottomila cose che possono andare storte in ogni tiro.

Se non sei perfettamente immobile sbagli.

Se pensi troppo sbagli, se pensi ad altro sbagli.

Se hai fatto un dieci e ti sei gasato, il prossimo tiro lo sbagli.

Se ti innervosisci o ti ostini, metti in fila sbagli su sbagli.

E per sbaglio intendo un tiro che finisce sulla parte bianca della sagoma, cioè nei punti da 0 a 6, mentre nel nero ci sono i punti da 7 a 10. Ovviamente, per un atleta, il tiro che finisce sul bianco è una vera e propria onta. Una cosa da dilettanti. I bersagli dei campioni a fine allenamento sono contraddistinti da un omogeneo buco centrale, detto “rosata”, composto dall’insieme dei colpi che l’atleta è riuscito, grazie alla sua tecnica impeccabile, a concentrare al centro della sagoma.


Il tiro a segno è uno yoga, cioè una disciplina, una metodica che porta a un risultato. Il risultato è il colpo perfetto, che accade solo se abbiamo seguito bene un certo percorso, esattamente come la meditazione nello yoga accade solo se abbiamo messo in ordine i precedenti anga, o rami, del metodo.

La sensazione che si prova quando il colpo parte e il pallino buca la sagoma centrando il bersaglio è indescrivibile. Bisogna provarla per capire. La pressione del polpastrello sul grilletto deve essere infinitesimale, per non spostare l’arma lateralmente e “strappare” il colpo. Quando si dice che il colpo deve partire da solo significa che non sei tu che decidi di premere il grilletto, ma una parte di te. Questa cosa per un certo verso può anche inquietare. Che vuol dire “parte da solo”, chi è che spara? Lo stesso soggetto che nello yoga medita. Sono sempre io sì, ma nella versione di me che ha messo da parte la volontà e la tecnica, dopo averle usate per arrivare fin lì, e ha lasciato il campo a qualcosa di superiore. Sono sempre io, nel momento in cui metto in atto, anche senza saperlo, il cosiddetto vairāghya.

Ma cosa vuol dire vairaghya? Letteralmente vuol dire “senza rosso”, incolore, senza passioni, privo di pulsioni, scevro da attaccamenti, distaccato da ogni aspettativa. Swami Satyananda dà una bellissima definizione di vairaghya nel suo libro I quattro capitoli sulla libertà. Per lui vairaghya è un processo di buddhi, che è la facoltà più alta del nostro complesso mentale, l’intelligenza intuitiva, la visione pura.

Quindi in primo luogo uso manas, la mente che riceve le informazioni dai sensi, dagli oggetti, la mente operativa, volontaristica, che mi supporta nel processo di perfezionamento della tecnica: abhyāsa. Ma poi, una volta padroneggiata la reiterazione del gesto, bisogna affidarsi a qualcosa di più alto e ineffabile. Esattamente quello che si fa, o si dovrebbe fare, nel progetto hatha-yogico con gli asana.


A questo punto il mio allenatore di P10 sottolineerebbe il carattere preminentemente agonistico e competitivo della disciplina, e il mio maestro di yoga, dal canto suo, prenderebbe le distanze da ogni gesto fisico asservito a logiche egoiche e livellanti. Entrambi coerentemente nel giusto.


Secondo me, che li sperimento entrambi, fino ad abhyāsa il terreno è comune. Bisogna lavorare duramente e con costanza col corpo, con la mente e con la volontà alla ricerca del gesto perfetto. Dopodiché, mentre l’atleta utilizzerà il nitore mentale per uno scopo egoico, acquisitivo e materiale, lo yogin invece otterrà da esso ekāgratā, la mente focalizzata su un punto, e potrà realizzare l’abbandono necessario al manifestarsi dello stato meditativo.


Focalizzarsi su un punto. Foto di Gerd Altmann da Pixabay.

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