Che cosa ci ha portati qui in questo mondo instabile di apparenze e dualità? Com’è che ci troviamo invischiati nella palude dell’esistenza materiale? Bhaktivedanta Swami Prabhupada completa la parola sanscrita pranashyati che letteralmente significa caduto, perso, con«caduto nella palude dell’esistenza materiale», ovvero nella coscienza materiale, esatto opposto della coscienza divina o pura coscienza.
Contemplando gli oggetti dei sensi nasce l’attaccamento, dall’attaccamento nasce la cupidigia e dalla cupidigia la collera.
Dalla collera nasce l’illusione e dall’illusione la perdita della memoria.
Quando la memoria è perduta, si perde anche l’intelligenza, e allora si cade nuovamente nella palude dell’esistenza materiale. (2.62-63)
La materia ha quindi potere su di noi, ha un fascino, ci può stregare promettendoci il piacere temporaneo ed effimero dei sensi, o meglio il piacere che si può ottenere dal contatto dei sensi con gli oggetti dei sensi. E facendo questo si attua un incantesimo che ci fa dimenticare chi siamo veramente, ci fa scordare la nostra origine spirituale di eterna beatitudine. Gli organi di senso sono dieci, ci sono infatti quelli che servono per conoscere e ricevere informazioni, in sanscrito jnanendriya (jnana si traduce «conoscenza» e indriya «organi di senso»), ovvero occhio, orecchio, naso, lingua e pelle, e quelli che servono per agire all’esterno, in sanscrito karmendriya (karma si traduce con azione), ovvero laringe, mano, piede, ano e organo sessuale. E gli oggetti dei sensi? Sono tutti quegli oggetti e situazioni del mondo che sollecitano ed eccitano questi sensi, dando, appunto, una sensazione di piacere, più o meno intensa.
Sappiamo dai precedenti versi che l’anima è cosciente, piena di felicità ed eternità, perciò è naturalmente attratta dal piacere, e questo non è il problema. Il problema sta nel cercare un piacere duraturo e sempre crescente, la beatitudine eterna, la felicità suprema in ciò che è effimero e non può assolutamente dare questo tipo di risultato. L’anima è di tutt’altra sostanza rispetto al corpo, quindi non può trarre godimento stabile e soddisfacente dal corpo, ma solo piaceri temporanei che, a lungo andare, si trasformano inesorabilmente in sofferenza.
Rivediamo la sequenza: contemplazione dell’oggetto dei sensi, attaccamento, cupidigia, collera, illusione, perdita della memoria, perdita dell’intelligenza, e infine palude dell’esistenza materiale, cioè perdersi completamente. Ecco dunque il motivo per cui ci troviamo in confusione, incapaci di essere in pace con il mondo e con noi stessi. Il contatto dei sensi con i suoi oggetti genera un piacere e un fascino che, se non gestito con sapienza, ci risucchia in un turbinio di alternanze di piacere e dolore fino a farci dimenticare chi siamo veramente, togliendoci ogni vera gioia e felicità. E per di più, questo è un meccanismo potentissimo, così potente che…
I sensi sono così forti e impetuosi, o Arjuna, da travolgere persino la mente di una persona giudiziosa che si sforza di controllarli. (2.60)
Come il vento impetuoso spazza una barca sull’acqua, uno solo dei sensi su cui la mente indugia può trascinare via l’intelligenza. (2.67)

Ma questo non significa che ogni forma di piacere sia da rifiutare. Il vero problema non sta nei momenti di convivialità, nelle gioie condivise, nel godere di un pasto gustoso o di una relazione profonda e significativa. La vera trappola della gratificazione dei sensi è la morbosità, quell’attaccamento malsano che nel tempo si trasforma in dipendenza. Siamo soliti pensare alla dipendenza come qualcosa di estremo, legato alle droghe pesanti o all’alcol. Ma in realtà, la dipendenza è un meccanismo sottile e pervasivo che si insinua in ogni aspetto della vita: si può diventare dipendenti dal cibo, dal sesso, dalle emozioni, dalle proprie abitudini e persino dalla sofferenza stessa. E questa dipendenza nasce proprio da quel circolo vizioso descritto nella Bhagavad-Gita: contemplazione, attaccamento, cupidigia, collera, illusione, perdita della memoria, perdita dell’intelligenza. Ma se il problema non è il piacere in sé, bensì l’attaccamento ossessivo e il suo potere di dominarci, allora qual è la soluzione? La Bhagavad-Gita ci insegna che il segreto sta nel trasformare il nostro modo di relazionarci al piacere e agli oggetti dei sensi. Non si tratta di reprimere o negare il piacere, ma di riconoscerlo nella sua giusta dimensione e, soprattutto, di orientarlo verso un fine superiore. Quando il piacere diventa un mezzo per connetterci a Krishna, per approfondire le nostre relazioni spirituali, per elevare la nostra coscienza, allora non solo non ci trascina nella palude dell’esistenza materiale, ma ci aiuta a riscoprire la nostra vera natura.
Ciò che rende tossica la gratificazione dei sensi è il suo utilizzo egoistico e compulsivo, la ricerca disperata di riempire un vuoto che solo il divino può colmare. Ma se i sensi vengono impiegati in modo consapevole e con devozione, allora si trasformano in strumenti di elevazione anziché di schiavitù. Quando il piacere diventa offerta, quando il cibo viene gustato come un dono sacro, quando la musica eleva l’anima, quando una relazione è basata sulla crescita reciproca e sulla connessione con il divino, allora i sensi non sono più nemici, ma alleati nel nostro percorso spirituale. L’alternativa alla dipendenza non è dunque la privazione, ma la trasformazione: dal piacere egoistico al piacere offerto, dall’illusione alla consapevolezza, dalla gratificazione momentanea alla gioia eterna.
Ed è esattamente questo che Krishna cerca di spiegare ad Arjuna alla fine del secondo capitolo. Arjuna però non capirà subito questo importantissimo e complicatissimo concetto, come vedremo alla prossima puntata.
Questo è proprio ciò che capita anche a noi, e ci vorrà tutta la Bhagavad-Gita per intuire il significato profondo delle prossime intense parole di Krishna. Diamoci il tempo per riflettere, ritagliamoci il tempo ogni giorno per meditare, osservare il mondo e riconnetterci al divino dentro di noi. Yoga, dopotutto, significa principalmente connettersi.
O Arjuna dalle possenti braccia, chi dunque ritrae i sensi dai loro oggetti ha senz’altro un’intelligenza risoluta. (2.68)
Come l’oceano resta immutato nonostante i fiumi che vi si gettano, solo chi non è turbato dal fluire incessante dei desideri può trovare la pace, non certo chi lotta per appagarli. (2.70)
Uno degli scopi principali della meditazione e più in generale dello yoga è proprio quello di realizzare nella pratica che noi non siamo i nostri desideri, ma siamo la scintilla spirituale di coscienza pura che anima il corpo e la mente. Nel momento in cui capiamo profondamente questo, allora ci troviamo immediatamente a contemplare come il mondo, in vari modi, ci spinga a fare il contrario di ciò che ci rende veramente felici, in una specie di illusione collettiva che giorno dopo giorno ci promette che la felicità duratura si trova proprio dietro quell’ultimo desiderio. Questa lotta per appagare gli innumerevoli desideri della mente è una lotta senza fine, e nel mentre lottiamo ci perdiamo la vita, che è proprio ciò che “accade” tra un desiderio e l’altro.
Quella che per tutti gli esseri è la notte è il tempo della veglia per chi ha il controllo di sé.
Quello che per tutti è il tempo della veglia è la notte per il saggio raccolto. (2.69)
Questa non è un’incitazione a disprezzare chi è diverso da noi o a sentirsi migliori degli altri, ma è un’affermazione basata sulla chiara evidenza dei fatti: la pace ha un prezzo, e iniziamo a pagarlo nel momento in cui impariamo a controllare gli impulsi generati dai desideri della mente. E noi NON siamo la mente. Che fare allora? Ritirarci nella foresta? Rinchiuderci in una grotta e non interagire più con niente e nessuno? Forse, ma forse c’è anche un’altra via…


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