Krishna inizia da questo prossimo verso a creare la cornice di pensiero nella quale impartire ad Arjuna il più grande e intimo degli insegnamenti segreti, riservati solo alle persone che non invidiano Dio.
«Come l’anima incarnata passa, in questo corpo, dall’infanzia alla giovinezza e poi alla vecchiaia, così passa in un altro corpo all’istante della morte. Il saggio non è turbato da questo cambiamento». (2.13)
«Ciò che pervade il corpo è indistruttibile. Sappi che nessuno può distruggere l’anima eterna». (2.17)
Noi non siamo il corpo, ma l’anima. Siamo dei veri e propri supereroi dello spirito, indistruttibili ed eterni. Niente di davvero nuovo per Arjuna, che possedeva già questa conoscenza, eppure è detto in modo nuovo, forte, dirompente in questo specifico momento della sua vita. Per noi è una conoscenza da far nostra… Noi SIAMO l’anima, non è che ABBIAMO un’anima. Quando diciamo “La mia anima…”, stiamo dicendo qualcosa di profondamente sbagliato.
Qui Krishna sta facendo un’affermazione che i filosofi chiamano ontologica, sta dicendo chi siamo veramente: non il corpo, non le designazioni di questa vita, ma la scintilla spirituale eterna che lo anima. Quella scintilla è coscienza, è la sorgente della coscienza, è ciò che dà vita al corpo. Se ti stai chiedendo cos’è la coscienza, Krishna la definisce atma, o jiva, ed è proprio questa scintilla divina indistruttibile di cui sta parlando.
«Effimeri, gioie e dolori vanno e vengono come l’estate e l’inverno, o figlio di Kunti. Nascono dalla percezione dei sensi, o discendente di Bharata, e bisogna imparare a tollerarli senza esserne disturbati». (2.14)
«O grande tra gli uomini [Arjuna], chi non si lascia turbare né dalla gioia né dal dolore, ma resta impassibile nell’una e nell’altra circostanza, è certamente degno della liberazione». (2.15)
Mentre viene stabilito con forza che non siamo il corpo, ma siamo spirito, ecco arrivare subito un importante caposaldo dello yoga: bisogna imparare a tollerare sia il dolore sia la gioia. Ammetto che ci ho messo un po’ di tempo a comprendere il senso di «tollerare la gioia», ma l’idea è quella del “distacco emotivo”, cioè l’essere comunque tranquilli e pacifici, sia quando le cose vanno a gonfie vele, sia quando siamo in difficoltà. In realtà il concetto è molto più semplice di quanto sembri, e secondo me è perfettamente illustrato dalla storia del contadino saggio.
Un uomo e suo figlio vivevano in un villaggio di campagna, non possedevano molto: una baracca, un piccolo campo da coltivare e un cavallo per arare il campo. Un giorno il cavallo scappò, e gli abitanti del villaggio dissero all’uomo: “Il cavallo era fondamentale per lavorare la terra, che sfortuna hai avuto!”.
E l’uomo rispose: «Forse sì, forse no. Vedremo».
Qualche giorno più tardi il cavallo fece ritorno insieme ad altri due cavalli selvatici, così si ritrovarono ad avere tre cavalli. Gli abitanti del villaggio sorrisero all’uomo e gli dissero: «Avevi un solo cavallo e ora ne hai tre, che fortuna hai avuto!».
E l’uomo rispose: «Forse sì, forse no. Vedremo».
Pochi giorni dopo il figlio puliva la stalla che adesso conteneva tre cavalli e uno degli animali si agitò, colpendolo e facendolo cadere. Purtroppo il ragazzo si ruppe una gamba. Gli abitanti del villaggio passarono davanti all’abitazione e dissero al padre: «Tuo figlio è il tuo unico aiuto nei campi. Che sfortuna hai avuto!».
E l’uomo rispose: «Forse sì, forse no. Vedremo».
Alcune settimane dopo si presentò nel villaggio un ufficiale dell’esercito per reclutare tutti i giovani uomini e portarli in guerra. Quando passarono dalla casa dell’uomo e videro che suo figlio aveva la gamba rotta, decisero di non reclutarlo.
Gli abitanti del villaggio, saputa la notizia, dissero al padre: «I nostri figli vanno a morire in guerra e il tuo invece no. Che fortuna hai avuto!».
E l’uomo, come sempre, rispose: «Forse sì, forse no. Vedremo».
Distacco emotivo non significa apatia o diventare anaffettivi, ma è un esercizio di vita che ha alla base la convinzione che il Signore si prende cura di noi in ogni circostanza, personalmente o tramite le leggi del cosmo. Niente di ciò che accade viene per farci del male, per ferirci: in ultima analisi tutto avviene per farci evolvere, per avvicinarci alla nostra essenza divina.
Abbiamo perso la connessione con noi stessi, e il modo per riconnettersi è il sentiero dello yoga e in particolare del Bhakti Yoga, lo yoga della devozione e dell’Amore. Una delle traduzioni di yoga è, infatti, connessione, collegamento. Krishna usa spesso il termine yukta per definire “chi è connesso”, e ha la stessa radice della parola yoga.
Una delle pratiche costanti dello yoga è proprio l’esercizio del distacco emotivo nella vita di tutti i giorni. L’esercizio del distacco emotivo ci induce automaticamente a vivere e gioire del presente perché ci permette di lasciar andare subito il passato, e di non preoccuparci troppo del futuro, nel bene e nel male: «Forse sì, forse no. Vedremo». Questo non può essere fatto in senso teorico, non basta leggerlo o studiarlo sui libri. L’invito di Krishna è di praticarlo, di viverlo giorno dopo giorno, per conoscere e assaporare in prima persona la forza e la libertà che scaturisce applicandolo.
Ho sentito tanti discorsi sul “vivere il presente”, ma mai è stato così chiaro e sperimentabile come percorrere la via del distacco emotivo nella vita di tutti i giorni come quando Krishna l’ha spiegato ad Arjuna in questo specifico luogo e momento della sua vita (Arjuna non era seduto comodo a un corso con blocchetto degli appunti e matita).
Krishna approfondirà molto il significato di questo esercizio, ha appena iniziato a spiegarlo, adesso vuole insegnare ad Arjuna che cos’è esattamente l’anima, e inizia così:
«Ignorante è chi pensa che l’anima possa dare la morte o morire, perché l’anima non può uccidere né essere uccisa». (2.19)
Questo è un altro passo importante per conoscere noi stessi che, non dimentichiamolo mai, SIAMO l’anima e non ABBIAMO un’anima.

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