Āsana, āsana, āsana… da cento anni lo yoga moderno non ha fatto altro che ubriacarci di posture, abilità fisiche e contorsioni, spogliando la disciplina dalle sue radici spirituali e filosofiche. Malgrado le ultime aberrazioni (hot yoga-beer yoga-puppy yoga…) questa tendenza sembra – finalmente- declinare. Sempre più insegnanti, pagine social e siti, promuovono uno yoga più legato ai testi antichi. Uno yoga che ritorna alle origini e insegna a ricercare l’immobilità in āsana, per raggiungere gli scopi più elevati. Tuttavia non bisogna mai “buttare il bambino insieme all’acqua sporca”, come recita un detto. Gli āsana sono una parte fondamentale della pratica di Hatha yoga, considerata la scala per raggiungere la vetta del Rāja-yoga. Mentre per Patañjali la postura del corpo è solo un supporto per la meditazione e il controllo del soffio vitale, per le tradizioni Hatha le posizioni sono finalizzate alla circolazione del prāna lungo i cakra, per il risveglio dell’energia latente. Malgrado queste differenze gli stadi più elevati dello Hatha corrispondono a quelli del Rāja-yoga, ovvero: pratyāhāra, la ritrazione dei sensi dagli oggetti, dyhāna, la meditazione, e il samādhi, l’annullamento di ogni dualità, che rimane anche per questa tradizione il momento più alto dell’esperienza yogica.
Il numero degli āsana ha attraversato molte modificazioni da quando, circa mille anni fa, furono redatti i primi manuali di hatha-yoga. Ma come ha fatto lo Hatha yoga a passare dai pochi āsana seduti dei primi testi, alle centinaia di āsana tardo medievali, fino a diventare “dinamico”, circa cento anni fa? A queste domande stanno provando a rispondere gli accademici, impegnati a tradurre l’infinita quantità di manoscritti della tradizione hatha, man mano che ne vengono in possesso. Tutti quanti sappiamo che Patañjali parla di āsana solo in tre sutra (II 46.47.48) senza descrivere alcuna pratica. In alcuni manoscritti della sua tradizione commentariale compare una lista di 13 āsana (leggi l’articolo in cui ne parlo), che secondo me (e altri studiosi, molto più studiosi di me) è stata aggiunta molto dopo la stesura dei sūtra, quando gli āsana erano diventati molto in voga presso alcune tradizioni Hatha. La mancanza di prove storiche sulla pratica di āsana ha ostacolato gli sforzi degli studiosi nel ricostruire la storia moderna dello yoga. Secondo il professor Jason Birch tutto ciò che oggi consideriamo facente parte dell’Hatha yoga, nella maggior parte dei casi non ha niente di antico. Ma quali sono, allora, le nostre certezze?
Certamente sappiamo che Patañjali non scrive Yogasūtra per un interesse sul corpo. Al suo tempo esistevano già tanti “yoga” e quindi sapeva benissimo che il corpo era uno strumento utile alla ricerca. Tuttavia il suo obiettivo era quello di dimostrare che la Coscienza e la mente sono due dimensioni separate, e che l’erronea identificazione della Coscienza nei processi della materia (cioè mente e corpo) è la causa di tutti i nostri guai. Ecco perché nel Rāja Yoga il focus non può mai essere la pratica fisica intensa o dinamica. Successivamente molte tradizioni yoga si appoggiarono alla teoria di Patañjali, modificandola e interpretandola. Tra queste anche lo Hatha yoga.
Secondo le ricerche di Birch, uno dei testi più conosciuti e citati dello Hatha yoga, cioè l’Hatha Yoga Pradipika, compilato nel XV secolo da Svātmārāma, in realtà è un ardito “copia-incolla”. Svātmārāma, che probabilmente oggi sarebbe accusato di plagio, all’epoca prese a prestito versi da vari testi che insegnavano sistemi di Hatha e Rāja yoga, oltre ad altre tecniche che furono incorporate in tradizioni più tarde di Hatha yoga. Integrando surrettiziamente una varietà di fonti, Svātmārāma, inserisce nella sua “lanterna dello yoga” più āsana di qualsiasi altro testo precedente. Afferma di conoscere molti più āsana di quelli citati, che sono “solo quelli conosciuti da Vasistha e Matsyendra”. In realtà otto āsana sono ripresi, parola per parola, dalla Vasistha Samhita e non esistono āsana (né testi) riferibili a Matsyendra. Quindi non si sa effettivamente quante posizioni Svātmārāma conoscesse oltre le 15 citate nella sua Hatha Yoga Pradipika.
Sappiamo, per certo, che nella Vasistha Samhita, opera del XII secolo, ci sono 10 āsana, di cui due (mayurāsana e kukkutāsana) non seduti. La Siva Samhita – altra opera molto citata nello yoga occidentale – del XV secolo, cita sei āsana, e celebra paścimottānāsana come uno dei più importanti. Invece una delle prime opere Hatha, la Gorakṣaśataka (del 1100-1200), cita solo due āsana. In sostanza, le fonti delle prime tradizioni Hatha comprendevano pochi āsana e concentravano il focus della loro pratica su prānāyāma e mudrā. Tuttavia gli autori di questi testi non conoscevano solo quei pochi āsana. Altre due opere, che sappiamo ora essere fonti della Hatha Yoga Pradipika – il Dattātreyayogaśāstra e il Vivekamārtanda – testimoniano l’esistenza di 8.400.000 āsana e asseriscono che Śiva ne ha insegnati 84.
È anche plausibile che molti āsana fossero praticati prima del 1400 da asceti e tradizioni marziali che non hanno lasciato testimonianze scritte. Per esempio si trovano svariati riferimenti agli āsana nel Mallapurana, un testo tardo medievale sul wrestling. È dunque assai probabile che le varie tradizioni Hatha insegnassero pochi āsana ma ne conoscessero tanti. Il che dimostrerebbe che avevano smesso la pratica di tanti āsana in favore di quei pochi che facilitavano la pratica di prānāyāma e mudrā. Le ultime ricerche dimostrano che prima dell’arrivo gli inglesi (metà 1600) diverse tradizioni di hatha yoga praticassero già più di 84 āsana. Molti di questi āsana non erano posture sedute, ma complesse e intense dal punto di vista fisico. Alcune prevedevano movimenti ripetitivi, l’uso di corde e il controllo del respiro.
Anche la tradizione commentariale di Patañjali, nel periodo tardo medievale, lista e descrive 84 āsana. Due secoli dopo l’Hatha Yoga Pradipika furono scritte molte compilazioni che integravano insegnamenti Hatha e Rāja con quelli della tradizione di Patañjali e bramanici. Uno di questi, risalente all’inizio del seicento, è lo Yogacintamani di Sivananda Sarasvati, un advaita vedantin, che probabilmente viveva a Varanasi durante il periodo Moghul. L’ultima metà dell’opera è strutturata secondo lo standard a otto rami dello yoga. Nella sezione degli āsana sono descritte 34 posizioni, provenienti da un’ampia varietà di fonti compreso il Pātanjalayogaśāstra (cioè gli Yogasūtra più, in questo caso, il commento di Vācaspati Miśra), il Rājamartanda, alcuni Purana e sei testi medievali di Hatha-yoga. Sivananda cita tutte le fonti e questo rende lo Yogacintamani una preziosa fonte per datare le opere e trovarne di non più esistenti. Lo Yogacintamani è composto da un’edizione stampata e cinque manoscritti.
Uno di questi, che contiene 84 āsana (mentre gli altri solo 34) si chiama manoscritto Ujjain, e alla fine riporta una data: 5 giugno 1659. Di solito i testi indiani sono assai carenti di riferimenti cronologici, per questo gli studiosi hanno fatto tanta fatica (e hanno tanto litigato) a datare le varie opere. Quindi la presenza di questa data rappresenta la più antica testimonianza manoscritta della lista di 84 nomi di āsana.
Athasānani 84 tatra patanjalih // sthirasukham āsanam
Adesso gli 84 āsana, su questo () Patanjali (disse): un ‘āsana è stabile e comodo.
Nel manoscritto Ujjain sono importanti due cose: la prima è che vi sono inseriti degli āsana provenienti da tradizioni visnuite. Il che dimostra la volontà degli yogi di combinare tecniche di tradizioni visnuite e śivaite. La seconda è che molti āsana sono attribuiti a maestri “recenti” e non solo a figure mitiche come Vasistha e Yajnavalkya.
1. Continua


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