Quando si parla di testi della tradizione Hatha, di solito si menzionano la Siva Samhita, la Gheranda Samhita e l’Hatha Yoga Pradipika. Questo perché sono stati i primi ad essere tradotti e quindi diffusi in Occidente. Ciononostante è un errore considerarli i testi radice di questa via iniziatica, che era già presente e attiva molto tempo prima della loro stesura. Nelle biblioteche indiane giacciono migliaia e migliaia di manoscritti in attesa di essere tradotti. Gli esperti sono pochi e quindi ci vuole tempo. Ogni traduzione aggiunge un tassello alla nostra conoscenza dell’Hatha Yoga e, talvolta, ci mette nelle condizioni di dover smontare quello che credevamo certo (modalità sempre poco conveniente in questo contesto, e talvolta anche nella vita) e riformulare tutto. Questa ricerca, oltre a essere un valido aiuto per la neuroplasticità di ciascuno, rappresenta, almeno per me, uno degli aspetti più affascinanti dello yoga: la costante consapevolezza di non sapere tutto, e la conseguente (e questa volta assoluta) certezza di non sapere (quasi) niente. I misteri dello yoga, ancora celati nei manoscritti non tradotti, ci invitano a mantenerci aperti e duttili. Ci ricordano che la conoscenza è un cammino, non un luogo in cui sostare.
Condivido con Rispirazioni alcuni spunti della mia traduzione dell’Amṛtasiddhi, dall’originale testo in inglese a cura di James Mallinson, indologo ed esperto di testi yoga di fama mondiale. Sono molti gli elementi che affascinano di questo testo. Non solo dal punto di vista filosofico, ma anche, se non soprattutto, da quello pratico.
Per la prima volta alcuni elementi della fisiologia tantrica vengono investiti di particolari poteri e “posizionati” nel corpo umano. Si parla dell’urgenza di mediare fra i due opposti per trovare una centratura; tema che rimane, è rimarrà per sempre, focale nella ricerca della felicità di ogni essere umano. Poi si affronta il fatto che la mente, da sola, non può raggiungere i gradini più elevati della conoscenza: le servono il corpo e il respiro. Le serve la materia. Ma bisogna capire come fare.
Infine, elemento estremamente interessante e “pericoloso”: la pratica, «intensa e dinamica. Che tende alla perfezione». Inutile ribadire che stiamo parlando della “perfezione” concepibile nel recinto di una disciplina spirituale, nell’anno 1000 in India. Il corpo perfetto è quel corpo che la pratica ha purificato, a partire dalla mente, da ogni incrostazione, da ogni ostacolo che occlude i nodi (granthi), e si frappone alla risalita del prāna. Altro che yoga-fitness e perfezione estetica da copertine di Vogue e Sports Illustrated. Quanti anni luce di distanza.

L’Amṛtasiddhi è un manuale di insegnamenti yoga, composto in sanscrito intorno al 1050, nel Deccan, regione dell’India centrale. Il titolo dell’opera può significare «Realizzazione della Liberazione» o «Raggiungimento dell’Immortalità», o «Raggiungimento della padronanza sul seme» poiché la parola amṛta, oltre a indicare l’elemento che garantisce l’immortalità, può riferirsi al seme, alla liberazione o alla vita, come è spiegato nella sezione conclusiva del testo.
Secondo il celebre indologo James Mallinson, che ne ha curato la traduzione in inglese dal sanscrito e l’edizione critica, l’Amṛtasiddhi è il primo testo ad insegnare un metodo fisico di yoga, che in opere successive sarà denominato Hatha, e lo fa in un dettaglio che non ha precedenti negli altri testi di yoga indiani. Per esempio gli elementi fisici Sole, Luna e Fuoco, già presenti nella fisiologia tantrica, vengono per la prima volta collocati nel corpo. L’idea di una Luna nel cranio che fa gocciolare il nettare si trova in molte opere tantriche precedenti, ma quella del Sole nello stomaco che lo consuma, è nuova. Così come la fusione del Sole e del Fuoco.
L’Amṛtasiddhi inizia con l’elenco e la descrizione di tutti gli elementi che esistono nel corpo umano. Il primo è la “Dea del Centro” (madhyamā), la linea mediana, l’equivalente microcosmico del mitologico Monte Meeru. Poi vi sono due “porte”, una in alto, situata nella zona della testa e una situata in basso, nella zona perineale. Solo coloro che sviluppano la Conoscenza alla nascita percorrono “la via della (pro)creazione” e si dirigono in alto, verso “la porta della liberazione”. La Luna è situata al vertice del canale centrale; rivolta verso il basso disperde Bindu, il nettare vitale, giorno e notte.
Ci sono due tipi di nettare discendente: il flusso che si riversa a sinistra, attraverso ida nadi, che porta il nutrimento al corpo, e il flusso che si dirige nella via di mezzo, che si occupa di portare avanti la (pro)creazione. Il Sole è situato alla base della “Dea del Centro” e percorre il canale destro, dirigendosi verso l’alto e pervadendo poi l’intero corpo. Il nettare che scende viene consumato dal Sole in tutti gli involucri (kośa), e per questo motivo l’uomo è soggetto alla morte. Quando invece tutti gli elementi sono convogliati in alto avviene la liberazione.
Il testo riporta sottili differenze fra Fuoco e Sole. Il Fuoco digerisce il cibo, regola il flusso di Bindu e garantisce la longevità, finché si trova nel suo sito naturale (nella zona della vescica). Il Respiro è considerato il più grande potere del corpo poiché svolge diversi compiti “senza coscienza”. Per esempio fa divampare il Fuoco digeritore e concede piacere e dolore. Inoltre l’unione (yogah) dei due maggiori respiri: prāna (lunare) e apāna (solare), praticata con perizia, concede al praticante poteri soprannaturali.
Per quanto il Respiro sia importante è all’elemento Bindu che sono dedicati il maggior numero di versi dell’Amṛtasiddhi.
Bindu è Seme, essenza fondamentale dei costituenti del corpo (tattvam), è Luna, principio vitale. Bindu e Respiro sono legati a doppio filo, poiché è il Respiro a regolare Bindu. Inoltre, lo stato della Mente (citta) è lo stesso di quello in cui si trova Bindu, il che rende Mente, Bindu e Respiro uniti indissolubilmente. La formula per rendere stabile la mente- e arrestare la ruota del samsara (le rinascite) – consiste nel fermare il moto del Respiro e trattenere Bindu nel corpo. Per quanto riguarda la Mente, che “governa il corpo e risiede nei cuori delle persone”, l’Amṛtasiddhi dice che essa non può auto disciplinarsi, come “una spada non può tagliare se stessa anche se molto tagliente”.
Ci vuole il Respiro.
La Mente, nel corpo, risiede dove risiede il Respiro. Se il Respiro si trova a destra o a sinistra la mente soggiace ai guna, cioè alla corruzione della materia. Quando invece il Respiro si trova nel centro, la Mente domina tutti gli elementi ed è ovunque. La materia (Prakriti) è come una zavorra per Mente, Respiro e corpo. È sia fisica (dośa) che mentale. Nel corpo contiene tutti i meriti e i demeriti delle vite precedenti. Nella Mente produce le vrtti, le increspature che consumano l’energia vitale. Solo quando tutti i riferimenti con la materia sono distrutti la Mente diventa pura, e la Conoscenza appare «come il Sole alla fine della notte».
Di norma il corpo e la Mente sono dominati dai guna Rajas (la tendenza attivante che fa danzare, cantare, ridere, flirtare, godere…) e Tamas (in cui prevalgono l’oscurità, il torpore, la collera…), che fanno spazio alla tendenza Sattvica (luminosità, pura conoscenza) solo quando sono distrutti. E come si fa a distruggerli? Con un’originale pratica fisica composta da tre tecniche fondamentali: il Grande Sigillo mahāmudrā, la Grande Chiusura mahābandha, la Grande Perforazione mahāvedha. Queste sono pratiche ampiamente note e ben presenti nelle successive opere del canone Hatha, ma è nell’Amṛtasiddhi che vengono codificate per la prima volta.

La pratica yoga dell’Amṛtasiddhi
Col mahāmudrā si chiude il perineo sigillando il Respiro dentro il corpo, in questo modo si «ferma il movimento della Luna e del Sole», si eliminano le impurità e si accende il Fuoco. Il mahābandha congiunge prāna e apāna e porta il Respiro in alto, invertendo i flussi energetici che, di norma, disperdono in basso il nettare. Praticando la ritenzione del respiro (kumbake) e la chiusura della gola le due pratiche si perfezionano a vicenda, in quello che L’Amṛtasiddhi chiama, con una palese metafora alchemica, Samputa Yoga, dove samputa è il crogiolo in cui si fondono le sostanze per creare un composto nuovo.
Entrambe le pratiche sono, però, inutili senza la terza: mahāvedha (la grande Perforazione). Ma cosa si deve perforare? L’universo microcosmico che è contenuto nel corpo dello yogin: i tre nodi (granthi) impilati sul Monte Meeru, che ostruiscono il passaggio verso l’alto dei flussi energetici, e di conseguenza la realizzazione. La pratica intensa e dinamica di mahāvedha «dà diritto ad accedere a segreti dei Tantra che nemmeno gli dèi conoscono». La chiave per il successo di questo Yoga è la pratica regolare (abhyâsa) della triade segreta, che è capace di «bruciare i demeriti di migliaia di vite», donare ricompense e distruggere Prakriti e guna.
L’Amṛtasiddhi elenca quattro categorie di persone (deboli, mediocri, eccellenti, straordinarie) che, in base alle loro caratteristiche e capacità, padroneggiano i quattro stadi della pratica yoga in tempi diversi. Il primo stadio della pratica (ārambha) serve a dosare il Respiro, «perché quando il Respiro è sforzato il Fuoco brucia i costituenti corporei» e a perforare il nodo di Brahmā, quello posto più in basso, correlato agli istinti e agli attaccamenti più materiali. A quel punto il corpo dello yogin diventa bello, profumato e pieno di energia.
Nel secondo stadio (ghatā) la postura diventa stabile e il Respiro penetra il Centro. Di conseguenza lo yogin ottiene la Conoscenza e “risplende nel mondo” come un dio. Spalancare il cancello della Dea del Centro significa preservare il Bindu, ovvero «distruggere il Fuoco della Morte dovuta al Tempo». Quando lo yogin controlla l’espiro (recako vāyuh) insieme a Bindu si manifesta, «come il Sole nell’oscurità», la Beatitudine Innata (sahajananda). Allora tutte le colpe e le virtù precedenti sono purificate e la materia è resa inoffensiva. Privo di impurità lo yogin è perfetto, ed è libero di «passare sull’altra sponda dell’oceano delle pene dell’angoscia, della malattia della vecchiaia, della tristezza e del dolore».
La perfezione del corpo è una conseguenza della perforazione del nodo del cuore (Visnu granthi), correlato alle tendenze egoiche, a cui segue la perfezione del Respiro, che dona consapevolezza e poteri che avvicinano lo yogin alla perfezione suprema (siddhih). Quando il Respiro è reso perfetto, e fisso al centro, la Coscienza diventa beatitudine e il samādhi si manifesta. Allora la Mente diventa perfetta e rimuove ogni sofferenza. Si giunge così al terzo stadio (paricaya) in cui Corpo, Parola e Mente sono perfetti. Lo yogin può penetrare in altri corpi, è dotato di innumerevoli poteri fra cui onniscienza, chiaroveggenza e telepatia.
Il passo successivo è la perforazione del nodo di Rudra, che elimina ogni attaccamento a opinioni, idee e pregiudizi. Il respiro ha raggiunto ogni cellula del corpo e la Mente diventa pura luce. «Quando la perfezione dei tre si manifesta in Corpo, Respiro e Mente quella è la Grande Perfezione, che dà il frutto della Liberazione in Vita». Lo yogin esce dal corpo attraverso l’apertura di Brahmā ed entra nel quarto stadio (nispannah), diventando un Siddha, un immortale ricettacolo di ogni immaginabile potere.
Nota: chi volesse ricevere tutta la traduzione può scrivere a acthefactory@gmail.com


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Nell’agosto del 2022, a pochi mesi dalla morte di mio padre, decisi di ripercorrere le orme del principe Siddhartha Gautama. Il suo percorso, come sappiamo, culminò con l’“illuminazione”. Il mio è stata un'immersione nella sua spiritualità e nei luoghi che lui toccò. Un'emozione che vi racconto a parole e con le mie immagini

Quando si parla di testi della tradizione Hatha, di solito si menzionano la «Siva Samhita», la «Gheranda Samhita» e l’«Hatha Yoga Pradipika». Ma nelle biblioteche indiane giacciono migliaia e migliaia di manoscritti in attesa di essere tradotti. Gli esperti sono pochi e quindi ci vuole tempo. Da poco, per esempio, è stato scoperto e tradotto un altro testo, l'«Amṛtasiddhi», tradotto da James Mallinson, e a sua volta tradotto in italiano dalla nostra Amalia Cornale