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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Se siamo Uno, se siamo nel Tutto, niente ci separa da chi non c'è più

Lo Yoga non ci dice che siamo Uno, che siamo nel Tutto? Che nessun uomo è un’isola come diceva John Donne (poi ripreso da Thomas Merton): «Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso; ogni uomo è una parte del tutto. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell'umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te».

Due titoli di libri (Per chi suona la campana di Hemingway) in un solo pensiero così universale e così profondo.


A voi capita di sentirvi parte di questo Tutto? Lo scrivo in maiuscolo perché è degno di rispetto. Leggevo recentemente dell'Universo e di come tutto si compia con “un senso del dovere” ammirabile, mai un moto di stanchezza, evoluzione e involuzione che si equilibrano, in espansione continua in uno spazio che è limitato dall'infinito stesso, ma che racchiude il mistero dei buchi neri che risucchiano (sì, ma dove?) tutto ciò che si avvicina. Nascita e morte. È lo spazio di questa esistenza.


Qualche sera fa parlavo con il mio amico Marco, è stato lui per la prima volta nell’84 a parlarmi dello Zen quando entrambi eravamo giovani virgulti di Radio Monte Carlo. Oggi, a 65 anni, lui ha trovato una stabilità e una serenità spirituale che non ha mai avuto prima: «Ti rendi conto che non siamo nemmeno un granello della sabbia del Sahara in questo universo?», mi diceva. «C’è chi ha il terrore della morte, ma sai, io sono curioso».


Certe volte, la sincronicità tra persone che si vogliono bene, stupisce: era stato il mio pensiero di una mezz’ora precedente alla nostra telefonata. Non pensiate che sia stata una telefonata deprimente, anzi, ci siamo raccontati delle nostre nuove chitarre e dei prossimi progetti musicali, la nostra passione comune, molto più di un hobby, soprattutto per lui che scrive testi per le colonne sonore di molti degli sceneggiati tv e dei film che avete visto. «Siamo un granello del Sahara» è un pensiero gioioso nella misura in cui accettiamo il nostro corpo e gli diamo la giusta valenza.


L’altro giorno ho parlato a lungo con un signore che a 85 anni non si rassegna di avere nel suo orizzonte la fine di questa esistenza. «Vai in riva al fiume impetuoso che scorre qui vicino», gli ho detto, «fissa un punto e dimmi se quel punto è sempre lo stesso. Non lo è mai e così noi, arriviamo, siamo e passiamo. Non è meraviglioso?». Non ho dovuto fare questo discorso al mio amico Cesare, 90 anni a marzo, eccelso suonatore di sax, clarinetto, contrabbasso e piano, un maestro che non smette di fare progetti e di godere del tempo che ha, di suonare assieme a me e ad altri musicisti alla Civica di jazz.


Si può vivere appieno essendo consapevoli che esiste una fine? Sì, eccome se si può. Proprio nella misura in cui diamo il corretto valore al corpo, al nostro involucro nel quale possiamo fare la nostra parte sulla Terra; nella misura in cui siamo consapevoli che, però, è solo un mezzo, un prezioso alleato che dice molto di noi e che ha bisogno di essere nutrito con l'arte del vivere.


Nella misura in cui. Quando vedo chi promette salute eterna con diete miracolose, chi fonda la sua via spirituale sull'immaginario e sull'immaginifico,

quando vedo maestri che si fanno fotografare in pose plastiche, acrobatiche o contorsioniste, mi chiedo cosa stiano cercando di dirmi. Perché il messaggio sembra: «Vuoi arrivare a fare quello che faccio io? Puoi!». Ma è falso. Paramahansa Yogananda quando arrivò in America si rese conto che nessuno dei suoi attempati discepoli sarebbe stato in grado di fare la posizione della “nave” o del “ponte”. Allora codificò un metodo (i 39 esercizi di ricarica) affinché il suo messaggio profondo potesse passare attraverso il corpo senza umiliarlo inutilmente.


Come la relazione col corpo è necessaria per entrare nel profondo, umiliare questo corpo, far vivere costantemente una sensazione di impotenza e di inadeguatezza porta molti praticanti ad abbandonare la pratica. Che peccato, no? Solo perché vogliamo farci vedere abili in qualche posizione difficile (e non guardate me).


No, quando si parla della finitezza inserita nell'Infinito non è un discorso triste. Antoine-Laurent Lavoisier ci ha insegnato che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma e non può non essere così con la nostra essenza. Non abbiamo prove, solo - per chi vuole e decide di crederci - deduzioni. Non il nostro corpo, ma il nostro Essere, il sé, l'atman, l'anima (o chiamatelo come volete, non è importante la forma neanche qui), potrebbe essere che continui il suo viaggio in una realtà parallela? Ho messo il punto di domanda perché nessun ricercatore potrebbe mai affermarlo, neppure chi - come me - sente è che più che possibile.


C'è un senso di poesia in tutto questo. L'altro giorno pensavo forte al mio papà e pensavo che se io sono quel Quid che chiamo «atman» e lui lo è stato e lo è ancora, non siamo separati, ma siamo insieme, uniti per l'eternità in questo Quid che qualcuno chiama Dio e io chiamo Infinito. È un pensiero poetico, sì, forse naïf, ma io lo sento autentico. E questa cosa non è confutabile. Unicuique suum, a ciascuno il suo.



Foto di Stefan Keller da Pixabay.

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