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  • Immagine del redattoreRiccardo Serventi Longhi

Non c'è nulla che possiamo trattenere, neanche la vita (A mia madre)

«Chiunque non abbia mai visto morire un uomo, soffre di un grave caso di verginità». Questo afferma il personaggio Jimmy Porter in un famosissimo monologo del dramma Ricorda con rabbia di John Osborne, riferendosi all’esperienza della perdita del padre. Il mio primo approccio a un testo, alla Scuola di teatro. 21 anni. La morte era per me un argomento impossibile da affrontare. A vent’anni, per molti, incluso me, la morte ha lo stesso valore di una banconota da 15 euro. Un’ ipotesi senza consistenza. Un’ inutile faccenda. Un argomento glissato mille volte. Eppure mi veniva richiesto di toccare proprio quella sensazione. La perdita definitiva. 


Attorialmente cercai di simulare qualcosa andando a ripescare la sofferenza in un’altra perdita possibile per me. Ricordo che questo strappo riuscii ad attingerlo nel ricordo della fine di una relazione d’amore, a quell’età un vero e proprio lutto. Non avevo altre memorie in cui raccogliere uno straccio di vera sofferenza. Ero quasi un uomo, e non avevo ancora sofferto. O almeno mi sembrava; poi scoprii che navigavo nel disagio esistenziale da anni, e che ne fuggivo alterandolo in ogni modo, come molta gioventù di allora, ora a cavallo tra i boomer e la Generazione X. 


Il teatro mi aveva accolto con ciò da cui fuggivo. Mi ricordava di stare nelle cose. Mi risvegliava l’esigenza di assumere una posizione di ascolto, più che di rumorosa ricerca di una soluzione nel già visto. È naturale, tutti fuggiamo dalla sofferenza, senza accorgerci che, non accettandola, in questo modo ne produciamo altra. Tutti fuggiamo dalla morte. Dvesa e Abhinvesa, si chiamano queste due afflizioni nello yoga. Da piccoli difficilmente ci insegnano ad attraversare il sentiero obbligato della contrarietà (il diverso dà notoriamente fastidio), ci dicono «non ti proccupare, va tutto a gonfie vele» e non «se accade questo disagio o difficoltà, è necessario che sia così. Prova a non rifiutare, ma ad abbracciare quello che credi nemico, e vedi dove ti porta». 


Fuggiamo dal fastidio in continuazione. E fuggiamo dalla morte, in infiniti modi. Fuggiamo nella disperata rincorsa al benessere fisico. Nelle cure maniacali. Fuggiamo prevenendo, fuggiamo discutendo quale sia il modo migliore di nutrirsi, fuggiamo a suon di frutta e verdura o di paleo-vite proteiche. Fuggiamo nell’evasione spezzafame di un weekend da sogno. Di una serie Tv. Fuggiamo nel voler ottenere ragione. Fuggiamo non solo dalla fine nostra, ma da qualunque fine. 


Da giovanissimi fuggiamo dalla realtà del giorno prolungando notti fino a fonderle con l’aurora. Interrompiamo la trasformazione saltando passaggi. Le esperienze si infrangono sul muro del 70-80% del loro svolgersi, per passare in fretta a qualcosa di nuovo. Scrolliamo con il dito dell’ansia, lo schermo dell’esistenza.


Eppure per vivere davvero, tutta questa velocità non ha senso. Se non quello di poterci accorgere che la direzione è un’altra. Ho cercato “il vero” (se «Verità» è una parola troppo grossa) da sempre. Dapprima in un’adolescenza colma di quelle bugie dette a sé, spesso, forse per scoprire dov’era la libertà dalle stesse, quando appariva. La naturale sfrontatezza di essere in continuazione contrario a tutto, a prescindere, perché il visibile non è reale. «Non ci credo devo provare altro!». Un’idea utopica post-liceale di facoltà di Giurisprudenza per andare verso il giusto, al di là della legge, mai vissuto perché quel giorno alla fila per l’iscrizione alla facoltà, la mia scelta deviò verso Lettere. Frequentata pochi mesi per immergermi subito con tutto me stesso, nello svelare il vero «dietro il verosimile» nel mestiere dell’attore e della messinscena. Il veramente falso che lascia filtrare quello che la mente cosciente non sa di contenere nei suoi cassetti nascosti, finché ti accorgi di possedere ogni sfumatura di vita, anche se non l’hai mai vissuta. O forse si?


Poi la ricerca spirituale più evidente, ma che era a monte di tutto. Desideriamo una vita piena, felice, e io ho seguito sempre questa direzione. Pienezza e gioia. L’incontro con lo Yoga raccolse ogni freccia che scoccavo, per rivolgerla verso l’interno. Verso la comprensione che, là fuori, non c’è nulla che possa soddisfare definitivamente la fame di felicità. 


Non c’è nulla che possiamo trattenere, neanche la vita. Ma possiamo incontrare, dietro l’apparenza dell’involucro che confondiamo con chi siamo, la Sostanza, l’Essenza, il Centro. Il nostro Sé. La nostra Anima. Altro che involucro! E da lì ripartire lasciandola affiorare anche laddove sembrava non esserci, cominciai a intravedere, nel tunnel oscuro della sfida, l’albeggiare, seppur lontano, della luce della crescita, della trasformazione, in tutto. 


Siamo venuti al mondo per brillare, diceva Paramhansa Yogananda. Siamo buio e siamo luce. Dipende dove portiamo la nostra attenzione. Eppure che luce può esserci nella morte? Cosa possiamo trovare in un mistero impossibile da etichettare, catalogare, ricordare (qualcuno parla di aver avuto percezioni a riguardo), che spesso accoglie in sé la sofferenza. Non lo so cosa accadrà in quel momento per me. Fosse fra 100 anni o adesso, non lo so. Ma credo che potrebbe essere un lampo di immensa verità. Un fatto inoppugnabile. E di fronte a questa maltrattata sorella che ci accompagna ogni giorno, ci nascondiamo tutta la vita (l’altra sorella, preferita dai più), invece di abbracciarla, fosse anche nella presenza in un altro da noi.


E se fosse l’esistenza il tunnel oscuro, e la sua fine, lo stato di chiarezza? Ho incontrato la morte più volte, accompagnando a quel momento, diverse persone. Che passaggio misterioso. Di colpo tutto quello che è stato non c’è più. Eppure, da osservatore, non ho mai avuto questa sensazione. Piuttosto quella di una grande liberazione. Non per niente nello yoga, per i grandi Maestri, si contempla il Mahasamadhi come trapasso. Nessuna morte casuale, ma l’abbandono volontario del corpo, in meditazione, nell’espansione della coscienza nell’Assoluto. In Dio.

«Chiunque non abbia mai visto morire un uomo soffre di un grave caso di verginità»: queste parole mi hanno accompagnato per tanto tempo. Accompagnare gli occhi di chi lascia il proprio corpo, spezza la membrana che ci separa dalla verità. Recentemente ho tenuto per mano, per due mesi, mia mamma Isabel in questo viaggio senza indicazioni. Senza navigatore, con una meta che non ha un luogo, né un tempo. L’allontanarsi da un fatto, rende questo più nitido, ma a volte scolorano i dettagli che trasformano l’esistenza.


Isabel, mamma di Riccardo Serventi Longhi.

Ora è tutto ancora vivo. Vivo lo sguardo dei miei fratelli alla sentenza del dottore. Vivo il mio cuore che ha inghiottito alcuni battiti prima di comprendere quello che stava accadendo. Che non sarebbe andata come le altre volte, come con le altre persone, perché stavolta ad andarsene era la fonte che aveva lasciato germogliare in sé chi ora, scrivendo nel ricordo, ascolta le lacrime scendere sul viso. Smriti, è la memoria, nello yoga. Può essere un limite, se è istigatrice di senso di colpa o ostacolo per non procedere o solco su cui incanalarsi per ripetersi, ma infinito nutrimento quando accompagna verso la chiarezza, verso l’Amore. 


Chissà quanti hanno vissuto questa esperienza, o sanno che dovranno viverla. Abbandoniamo la paura. Ho scelto di non perdermi un solo istante di quello che stava accadendo, di stare accanto alla fine che sembra non arrivare mai. Perché la vita è il dono più grande che abbiamo ricevuto, e per lasciarla andare, bisogna essere pronti. Dovremmo allenarci a farlo. «Muoio ogni giorno» (Corinzi 15,31) diceva San Paolo. Yogananda spiega che in queste parole Paolo di Tarso si riferiva all’abbandono all’Infinito nella meditazione profonda. Mia madre non lo era. Non era pronta. E ha trattenuto la vita fino a lacerarsi. Anche fisicamente nel vero senso della parola. Non poteva più ingerire nulla, neanche acqua. Eppure era lì. Per lei? Per noi? Non lo so, ma nel frattempo sentivo le sue piaghe in me. 


Ero impotente, finalmente, di fronte alla vita che si trasformava in sua sorella. Dico «finalmente», perché la nostra mente, è sempre in cerca di risoluzioni a qualunque cosa, piuttosto che di predisporsi al «lascia che sia». «Chiunque non abbia mai visto soffrire un uomo, soffre di un grave caso di verginità». Ho ascoltato mia madre gridare per ciò che accadeva, per il dolore. Poi, appena possibile, nei brevi momenti di quiete, come a farmi tranquillizzare da lei che potevo rilassarmi, le chiedevo: «Mamma come stai?». E lei, con un filo di voce rispondeva: «Bene». Voleva solo rassicurarmi, o stava cogliendo l’essenza della sua esperienza? Lasciava andare il momento passato per vivere il presente, e trovava il «Bene»? Un tempo infinito di attesa nel quale ero chiamato, come lei, a “stare”.  A non modificare. A non mentire, o mentirmi. A non dare colpe o cercare alibi.


Quanto è stato difficile non voler altro da ciò che stavo vivendo. Fermare il pensiero sui «perché?», sul senso di tutto quello che accadeva a una povera donna che aveva perso i genitori poco più che ragazzina, che aveva perso due figli, il marito, e ora agonizzava sulla sua sindone, ricoperta da ondate di «Ti voglio bene». Qualcuno dice che proprio quelle parole la trattenevano. Raga, l’attaccamento al piacere, al sentirsi bene è un collante indelebile.


Poi una sera, appena andato via, pochi minuti dopo essere uscito dalla casa dove l’avevo lasciata, una voce al telefono mi dice: «Mamma se n’è andata». E la morte ha spalancato la mia anima su un’ondata di Luce. Era libera. Ora lei era vera. Non reale Vera. Essenza priva di confine. Tutto quella sofferenza, nascondeva la libertà che doveva attraversarla per manifestarsi. Ora non ha più una casa il suo corpo. Ma il corpo non ha nulla a che vedere con la verità. È un sogno che svanisce con se stesso. Ciò che resta, è verità. Siamo immersi nella verità e non ce ne accorgiamo perché distratti dall’apparenza. Siamo circondati dalla Grazia. Basterebbe il silenzio di fronte alla Vita, per risvegliare l’eterno. Ah, mia madre diceva che avrebbe vissuto 127 anni (!!) e credo che lo stia facendo.   



Foto di AndreasAux da Pixabay.


   

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