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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Mi sono fatto male con lo yoga e ho scoperto lo yoga

Aggiornamento: 30 mar 2023

La pratica inizia quando finisce la pratica. Perché yoga è rispettare il corpo e scoprire se stessi Qualche giorno fa, durante la mia lezione, come sempre all'inizio, si crea uno spazio fisico e temporale tra quello che è accaduto prima nella giornata e l'hic et nunc: si parlava di vita, mi raccontavano della difficoltà di alzarsi la mattina per praticare qualche respiro consapevole, la quasi impossibilità di fermarsi prima di lanciarsi nelle mille faccende quotidiane. E poi della difficoltà di vivere una vita così piena di cose, l'impossibilità di sapersi annoiare. «Vedete - ho detto loro - quello di cui stiamo parlando è yoga». Ci credo: yoga non è l'ora e mezza in cui ci stendiamo sul tappetino e facciamo pratica, ma il resto della vita tra una pratica e l'altra. Finora era stata teoria appresa nei corsi di formazione, ora lo sto sperimentando nella mia vita. Lo so che oggi dire «yoga» è dire quanto di più vago si possa immaginare. Da quando i frutti del Colonialismo inglese lo hanno trasformato in una ginnastica, è sempre più difficile incontrare chi insegna e pratica Raja Yoga, lo yoga regale. Al di là del nome altisonante, è solo un modo per distinguere una disciplina più basata sui sacri testi, che una pratica dinamica e incentrata sugli asana. Gli asana, nella pratica che svolgo e tengo io, sono solo un prezioso momento che aiuta ad arrivare al vero obiettivo di quell'ora, che è la respirazione consapevole in uno stato di arrendevolezza, di rilassamento psicofisico. Entrare in questa prospettiva mi aiuta a prendere contatto con tante parti di me, in una sfaccettatura di esperienze intime e sensibili, che poi, una volta fuori, mi aiutano a vivere la vita con più consapevolezza, ad abbattere le barriere mentali, ad aprirmi a nuove possibilità e, talvolta, a espandere la coscienza, a diventare tutt'uno con il Tutto. In questi giorni un amico mi raccontava che l'ennesimo osteopata gli confessava di avere molti pazienti yogini. L'ennesima testimonianza. Ma capisco quelli che si fanno male, è capitato anche a me. Ti trovi sul tappetino in competizione con te stesso, con le possibilità che diminuiscono, l'età che avanza, le magagne che sbocciano come fiori, e non ti arrendi, forzi, vuoi dimostrare a te stesso che ce la puoi fare: sennò cosa sei andato lì a fare? È l'anticamera dell'osteopata, se non peggio. Entri dall'osteopata ed esci dallo yoga.


Io sono stato fortunato: quando mi è accaduto, quando ho terminato uno stage piangendo dal male e sono stato impossibilitato a praticare per un anno intero, ho riflettuto sui sacri testi, «Yogasutra» e «Bhagavad-Gita», e mi sono chiesto cosa fosse davvero questo yoga. È lì che si è aperto un mondo, mi si sono palesate nuove prospettive e vette insperate, in cui il corpo è trattato con il rispetto che si deve a una creatura divina, e in cui la mente è osservata mentre si relaziona col corpo, con i pregiudizi, con i giudizi, con le disabilità fisiche e - appunto - mentali. La pratica è iniziata quando finiva la pratica. La pratica si è fatta lunga 24 ore, 24 ore di osservazione, calibratura di sforzi, accettazione, prove di volontà e di arrendevolezza, fuori dagli schemi prestabiliti. E ho capito che quello, solo quello, era yoga.


Nella foto scattata da Armando Gallo, il mio «Garudasana» a Mono Lake (California), giugno 2017.




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