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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Separarsi è umano, dividersi è diabolico

Aggiornamento: 4 ago

Se guardi sul Vocabolario Treccani, alla voce «separare» puoi trovare questi sinonimi e queste spiegazione del vocabolo:

  1. «Dividere, disgiungere persone o cose vicine o contigue, mescolate, materialmente o spiritualmente unite.

  2. Distinguere, sceverare.

  3. Dividersi, staccarsi, allontanarsi da persone alle quali si era legati da interessi, idee, sentimenti e attività comuni».

Accade quasi sempre però, che i sinonimi siano usati per attribuire uno stesso significato, quello, appunto, dello staccarsi da qualcuno o da qualcosa, dell'allontanarsi con il corpo e con il cuore.


Ma siamo sicuri che siano sinonimi veramente? Che dire «divido» e «separo» sia la stessa cosa? No, non sono la stessa cosa. Difatti «dividi il pane» non lo separi; separi due persone che litigano, ma non hai la reale possibilità di dividerli perché il dividerli sarebbe un passo in più, animico, di intenti, personale, intimo, irraggiungibile.

«Separare il grano dalla pula», dice Gesù nei Vangeli, non «dividere il grano dai chicchi». C'è un'enorme differenza tra «separare» e «dividere» perché il primo verbo ci racconta dell'allontanamento fisico per fare altro mentre il secondo è uno spezzare qualcosa e nasconde un dramma se non una tragedia.

L'etimologia ci aiuta: «separare, dal latino sepărare, composto da se- «a parte» e parare “fare, approntare”» (Fonte: Treccani).

Dividere: «Il termine "diavolo" deriva dal latino tardo diabŏlus, traduzione fin dalla prima versione della Vulgata (fine IV - inizio V secolo d.C.) del termine greco Διάβολος, diábolos, ("dividere", "colui che divide"». (Fonte: Wikipedia). Chiaro?


Non per niente la Legge parla di «separazione tra coniugi». Mentre negli Anni 60 il moralismo dell'epoca faceva dire «si sono divisi». Poi, negli Anni 70 per il divorzio ci fu una “battaglia”: nel 1974, giusto 50 anni fa, un referendum divise gli italiani tra chi voleva abrogare la legge che consentiva il divorzio (che esisteva dal '70) e chi la voleva mantenere. Vinsero i «no» all'abrogazione e l'Italia iniziò la sua svolta laica. Ma fu una conquista dura perché quando le religioni entrano nella politica, il danno per la civiltà è grande. Divorziare non è una buona cosa, ma quasi sempre restare insieme per convenienza o per paura è ancora peggio. Ci vuole coraggio a restare e coraggio ad andarsene. I figli ricevono danni da genitori che divorziano e da genitori che restano insieme per convenienza o per convenzione (pensate che quando mi sono separato io, 18 anni fa, ci fu qualcuno che mi disse: «I figli dei divorziati hanno sempre problemi». Ed era una brava cattolica a dirlo. Gli altri, invece, tutti bravi e felici? Non mi sembra proprio. Che ipocrisia...).



La percentuale di divorzi nel mondo.

Ora sappiamo che separarsi vuol dire (etimologicamente) «fare a parte», «cambiare strada», significa che il percorso intrapreso anni prima non può più essere più condiviso: e anche se nei primi mesi delle separazioni la contrapposizione è forte, col tempo gli angoli si possono smussare e può essere raggiunta una “pacifica sopportazione”. Conosco «ex» che si odiano e seminano odio nei figli verso l'altro ex partner. E conosco «ex» che, anche se con fatica, passano il Natale insieme con le nuove famiglie e che si aiutano nonostante abbiano cambiato strada. Sono rari perché spesso abbiamo paura l'uno dell'altro, perché talvolta l'ascia di guerra non viene mai seppellita. E perché non è facile convivere col ricordo, perché ritrovare persone andate via fa venire paura di tornare indietro, di non darsi una nuova possibilità. Ma quando due persone riescono a trovare il senso della loro storia e a capire che era meglio lasciarsi che farsi la guerra, allora le paure svaniscono e può scoppiare la pace.


Il mondo della spiritualità, come quello della politica, è un luogo di divisioni. Il mondo dello Yoga ancora di più, con tutti questi ferventi aspiranti asceti che si fanno la guerra nel nome del «vero Dio», del «vero Yoga», del «vero buddhismo», eccetera. L'Islam ha 99 nomi di Dio, l'induismo e il Vedanta ne contano migliaia. C'è bisogno di dividersi per un nome? Ridicolo, no? Eppure questo accade.

Ogni guru semina molti discepoli che danno vita a realtà che interpretano al meglio il suo pensiero e che non potranno mai esprimere la purezza del suo pensiero. Eppure nelle varie vie i discepoli si guardano in cagnesco e assumendo a sé la “vera tradizione” e rinnegando così in un sol colpo qualsiasi benedizione. Meditare per ore, fare ore di adorazione eucaristica o settimane di ritiro e poi tornare a casa e scannarsi con il proprio vicino è al limite della farsa. Se alla fine di una messa, di una meditazione, di una pratica si sbotta con la moglie o con il marito dovrebbe far riflettere. Dico però che, quando accade, è un momento prezioso non per provare sensi di colpa, ma per comprendere meglio noi stessi e la natura della nostra spiritualità. E per cercare oltre la forma.


Allo scorso Yoga Festival ho avuto la fortuna di intervistare il dottor Balmukund, dottore in Naturopatia e in Ayurveda. La sua caratteristica è che è nato e opera a Vrindavan, cioè la patria di Krishna e della spiritualità Vaisnava (quella degli Hare Krishna, per intenderci). Quindi così, d'emblée, diremmo che è un seguace di Dio come Krishna. Ma sentite cosa dice la sua biografia: «Fin dall'infanzia, il Dr. Balmukund si è interessato allo Yoga e dopo aver trascorso diversi anni in varie città, diverse parti dell'Himalaya e grotte per praticare lo yoga e trovare l'essenza della vita, ha incontrato il suo Yoga Guru, Swami Niranjanananda Saraswati, un discepolo di Swami Satyananda Saraswati, nella Bihar School of Yoga». Cosa significa questo? Significa che il suo guru e la sua scuola yogica sono invece shivaite, cioè che venerano Dio come Shiva. Non è così frequente, credo.

Così gli ho fatto la domanda: «Com'è possibile che un vaisnava sia anche uno shivaita?». La risposta l'avevo chiara dentro di me, ma quando l'ha espressa è stata comunque una grande grazia: «Perché quando siamo a un livello superiore, non c'è divisione». Già.


Ecco, al livello cui tutti aspiriamo non c'è divisione. Se ancora in cuor nostro pensiamo il contrario, se abbiamo paura di lasciar cadere i muri e le barriere, se facciamo enne distinguo, se pensiamo che un'apertura non sia conforme a una spiritualità sana, allora abbiamo ancora un po' di strada da fare.


Perché aprirsi alle possibilità non significa fare sincretismo, cioè un mix di mille pratiche, cosa poco consigliabile perché non consente la progressione: ma se si individuano due pratiche di due tradizioni diverse e non contrarie tra loro (ecco la necessità di conoscere bene le tradizioni), si possono praticare separandole l'una dall'altra. Per esempio, recentemente ho fatto una scoperta meravigliosa, e cioè che Lahiri Mahasaya, guru del guru di Paramahansa Yogananda, è stato anche colui che ha insegnato le tecniche di Kriya Yoga a Swami Sivananda, a sua volta guru di Swami Satyananda. Vedete che ha ragione il dottor Balmukund? Non esiste divisione “nel cuore degli angeli”. E se poi un “guru” vi dirà che abbiamo torto e che è necessario mantenere gli steccati, be', il mio consiglio è di separarsi da quel guru. Ne trarrete giovamento.




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