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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Il sacro è ostaggio delle nostre richieste al divino?

Aggiornamento: 20 mar

Ieri sono entrato in un negozio di arte orientale molto elegante nel centro città. È un luogo cui puoi avvicinarti solo se hai un buon budget perché le cose esposte sono piuttosto care. Dato che sono stato in India e ho capito come gira il fumo, sono sempre sospettoso sull'arte che arriva da lì perché non ho le conoscenze per stabilire se sia vera o presunta tale.


Avrei voluto acquistare un Buddha per il mio piccolo altare domestico perché questa energia mi appartiene e i suoi insegnamenti da sempre danno luce alla mia vita. Sul perché creare un altare domestico ci sono diverse teorie e io provo a spiegare la mia: per me è il luogo della gratitudine, del ritrovare figure e archetipi che hanno dato senso alla mia vita, Yogananda, Sivananda, Krishna, Śiva, ma soprattutto il simbolo dell'Infinito, il divino universale che è la sillaba Om, tanto assoluto e impersonale quanto onnipervadente. Le figure non sono importanti in se stesse, non mi chiedono una venerazione, ma sono una memoria piena di amore per quello che gli insegnamenti mi hanno dato. Il vero altare, quello che rappresenta quella sorta di “presepe della vita”, è la loro parola, lo Spirito che mi hanno trasmesso attraverso i loro scritti. L'altare è la Parola.


Torniamo nel negozio. Un po' per provocare, alla domanda «Quale budget ha?», ho risposto «25 euro» sapendo bene che è pochissimo, ma per farle capire che non ero disposto a spendere una fortuna. C'era un Buddha piuttosto piccolo che veniva via a 185 euro. Allora per sdrammatizzare - ridendo di me - le ho detto «Torno quando sarò più ricco». La signora, sempre gentilmente mi ha risposto: «Allora le serve una statua di Ganesha». E io di rimando: «Ce l'ho ma non funziona». Il mio intento era di tenere lo scambio di battute su un livello leggero, per non dirle che i suoi preziosi oggetti erano cari, almeno per me. Ma lei l'ha presa seriamente e mi ha risposto: «Se si pratica con devozione, funziona». Sono uscito sorridendo, ma sono proprio andato via per evitare di entrare in una discussione che non avrebbe dato frutti perché avevo capito il fil rouge.


In India, la maggior parte della popolazione ha una devozione sincera che in molti casi sfiora la superstizione, preghi quella divinità e ottieni (o speri di ottenere) qualcosa. Per cui ci sono decine di divinità (l'induismo è considerato un enoteismo, cioè un tipo di religiosità che prevede la preminenza di un dio su tutti gli altri, ma è un monoteismo quando considera il Brahman come realtà assoluta, ndr) e di santi per ogni bisogno e sappiamo bene che i bisogni in quella terra bagnata dal Gange sono tanti, tali che difficilmente si possono immaginare nel pur impoverito Occidente. Lì la gente vive letteralmente per la strada, si ripara dietro un telo di plastica e le temperature al Nord sono rigide quanto qua, in questo periodo a Delhi c'è una forte ondata di freddo. Ma in quelle condizioni vivono adulti, vecchi e bambini. Leggetevi il bellissimo romanzo Shantaram per comprendere qual è la vita negli slum. Ma, a Rishikesh come a Benares, la miseria è ovunque nelle strade. Dunque le divinità rappresentano la speranza per tante persone che non ne hanno altra.


La stessa cosa l'ho vista a Gerusalemme (viaggio del 2015 cui si riferisce la foto più sotto) tra i fedeli di tutte le religioni e lo stesso atteggiamento si nota nella religiosità popolare con le statue dei santi e di Maria. Una devozione “utilitaristica”, «chiedo per ottenere». La preghiera è anche questo, ma spesso è solo questo: «accendo una candela per...».


Ora, molti di noi si erano rivolti all'Oriente per cercare un nuovo modo di intendere la spiritualità, qualcosa che andasse oltre le forme e le apparenze, che mandasse al macero una certa superstizione cattolica per ritrovare l'essenzialità della fede o della ricerca o della meditazione sulla vita.

Purtroppo l'uomo rimane uomo a tutte le latitudini e la via più facile al sacro rimane quella della superstizione e quello che vedo è la trasposizione della superstizione cattolica in salsa indiana: «Prima ero devoto a Sant'Antonio per ottenere la grazia, oggi sono devoto a Ganesha per ottenere denaro».

E così il sacro va per rane.


Il motivo di questo decadimento spirituale nel progredito uomo occidentale sta nel fatto che, mutatis mutandis, quello che si porta nel terreno del sacro oggi è il modello del business: se faccio qualcosa ci devo guadagnare qualcosa. Il marketing ce l'abbiamo dentro. E non è sbagliato di per sé, perché si deve guadagnare per vivere, ma quando si applica alla religiosità o alla spiritualità... nascono i mostriciattoli nella testa.

Questa mentalità porta a una banalizzazione dei principi o dei consigli spirituali. Il «Si fa così» si deposita nelle stratificazioni karmiche della memoria finché se non fai «così» ti sembra di avere sbagliato qualcosa, di esserti attirato una “maledizione” e di doverti purificare. Si arriva al fatto che se cade un'immagine o una statuetta pare di aver commesso un sacrilegio. Invece sono solo oggetti, perché la devozione è nel cuore.


Sapete, la cultura cattolica imperante ha completamente trascurato il secondo comandamento biblico, al punto da averlo inglobato come un'appendice: «Non ti fare scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a quelle cose e non servire loro...» (La Bibbia, trad. Riveduta 2020). Pensate che nella frase successiva, Yahveh definisce questa pratica una «iniquità» che viene punita fino alla quarta generazione. A che generazione siamo noi? Mi viene da ridere. La natura dell'uomo conduce verso l'idolatria. La Bibbia, che è un libro di psicologia scritto in un linguaggio arcano, lo fa capire bene e ricorda - con metodi spicci, ma 3000 anni fa non si guardava per il sottile - che questa cosa è una “maledizione”. Questa cosa - l'idolatria - è una maledizione, non il disubbidire alle norme. Togliere il Sacro dal sacro, questo è un peccato, nel senso che è un peccato farlo perché ci toglie una possibilità di entrare nel profondo della nostra personalissima e intima religiosità.


Quindi la devozione, per chi ce l'ha, può avere solo il colore della gratuità. Parola che ha la stessa radice di «gratitudine». È un'inversione di marcia, una rivoluzione copernicana rispetto al New Age (che tutti detestano a parole, ma che in tanti ci finiscono nei fatti), che ha avuto il grande merito di aver aperto porte chiuse e ha la grave colpa di avere appiattito tutto. E ridare un senso alla nostra devozione è forse l'ultimo passo verso quel mondo nuovo che aspiriamo a realizzare dentro e fuori di noi.



Pellegrini all'interno della Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme.

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