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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Il mio Yoga non ha nomi inglesi, è solo una via verso l'abbandono al divino

«Ma tu che Yoga insegni?». Attimi di crisi, panico, mente persa nel vuoto... Come faccio a spiegare che il mio maestro mi ha aperto la mente e il cuore raccontandomi, spiegandomi, sviscerandomi i sutra di Patanjali? «E chi è sto Patanjali? Ma fa bene alla schiena? Io ho mal di schiena...». Ogni volta che inizia una nuova “stagione” e iniziano le lezioni di prove, incontro sempre l'immaginario sullo Yoga. E so benissimo che a contribuire a questo immaginario è la popolarizzazione progressiva di questa disciplina. Sono stati negli anni i libri del New Age che hanno influenzato il mondo della ricerca, le leggende sulle visioni, sui miracoli delle posture, i fachiri (che in India sono musulmani e non induisti, però) e perfino Sandokan.


Una volta una mia adorabile allieva alla fine della prima lezione mi ha detto: «Ma io dopo un'ora non sono riuscita a fermare i pensieri!». Lei ha avuto il coraggio di dire quello che molti pensano e forse abbiamo pensato tutti.

La sua frase è il poster dei tempi. Ma non solo di questi tempi, bensì degli ultimi decenni che hanno messo un carico da 90 sulle parole «yoga» e «meditazione».

Se in un articolo vuoi rappresentare un grande maestro non puoi omettere i prodigi veri o di cui si dice; se uno è mistico non può non fare miracoli o presunti tali; ricordo la delusione nell'apprendere che un grande come Thomas Merton era morto folgorato come un comune ragioniere: se non c'è l'effetto speciale, la mistica non la si può raccontare. Lo stesso Paramahansa Yogananda negli Anni 20 cercava di enfatizzare questo aspetto per impressionare gli americani e per portarli sulla via della realizzazione del Sé. Siamo uomini e anche un po' caporali e lui lo sapeva bene.


Dunque oggi lo yoga dinamico è figlio della volgarizzazione del pensiero e di una campagna di marketing senza esclusione di colpi. Negli Anni 90 andava di moda il buddhismo, il Dalai Lama e la meditazione sul balcone dell'hotel di Palermo di Richard Gere a Palermo, oggi il buddhismo non “tira” e non attira più. Oggi se non c'è la parola «yoga» non si vende nulla.


Quindi io capisco bene chi stigmatizza questo esasperato uso di aggettivi inglesi per descrivere qualcosa che con lo Yoga che ho studiato io non c'entra nulla. Così come non capisco e non condivido il bisogno di tanti insegnanti di occuparsi dei muscoli malati degli allievi, pratica svolta in modo egregio da osteopati, chiropratici e da qualificati insegnanti di pilates (gli osteopati che ho frequentato mi hanno sempre confidato che la loro sala d'attesa è piena di insegnanti di yoga, peraltro); così come, per la mia visione, non si dovrebbero occupare di diete e medicinali, là dove ci sono alimentaristi qualificati e medici allopatici o ayurvedici competenti.


«Che tipo di yoga fai, dunque?». È solo Yoga, my dear. Non sono un maestro, sono uno yoga sadhaka, un praticante, un comunicatore, un messaggero, un eterno principiante, che ogni giorno ricomincia daccapo, non nel misurarsi con gli asana, ma con i movimenti interni della coscienza e della consapevolezza. Ma è vero che bisogna definirsi e allora ho scelto di definirmi per la mia formazione, per la mia tradizione che affonda le sue radici nel Raja, nello Hatha, nel Tantra. Il mio lignaggio, che è quello del mio maestro Antonio Nuzzo, risale a Swami Sivananda, a Swami Satyananda, ad André Van Lysebeth e a Vimala Thakar. Niente come il lignaggio può identificare non tanto uno yoga, quanto un modo di insegnarlo perché che tu abbia studiato con Swami X non mi dice niente se non mi aggiungi la scuola cui Swami X si rifà, si ispira.


Per fermare la inarrestabile sfilza di «yoga moderno» non ci sono rimedi. Ma di certo quello che possiamo chiedere a noi insegnanti di Yoga è di non mischiare una tradizione con l'altra. Lo possiamo chiedere (anche se poi ognuno faccia quel che vuole e sia felice se ci riesce) perché siamo certi - lo abbiamo provato - che in una tradizione solida e consolidata da un robusto lignaggio ci sono tutte le pratiche per soddisfare curiosità, avanzamento spirituale e - se il karma lo concede - la possibilità di qualche “effetto speciale”. Per capire, poi, che la cosa che conta di più è l'abbandono consapevole al divino per svolgere con amore e gentilezza il compito che abbiamo nella società. E tutto questo non ha neppure un nome inglese.


Un sadu sul Ghat di Varanasi.


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