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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

I colori del tramonto possono diventare quelli dell'alba: la strategia per uscire dal dolore

La fine di qualcosa, di un’ideale o di un’illusione o di una realtà, è sempre un momento doloroso. Quando mi capita provo sensazioni molto forti che creano pensieri, brividi di rabbia, un dolore sordo, un vuoto incolmabile, un senso di disperazione. Non basta praticare Yoga per uscire indenni dalla fine di qualcosa. A nessuno è scontato il dolore, ma il dolore è maestro se sei nel percorso di ricerca interiore. Il dolore parla, ti interroga, ti sfida. Ti impone una scelta: crogiolare in esso fino alla dissoluzione di te, oppure…


Ecco, questo «oppure», ormai mi accompagna fin dalla prima “fitta”. L'ho vissuto pochi giorni fa e ho compreso che dovevo attraversare quel guado, dannazione... No, non potevo evitarlo, perché non sei sempre tu l’artefice del tuo dolore. Perché si innesta sulle tue fragilità e presuppone che un’azione vada a segno, che trovi il punto esatto in cui colpire. E questo non dipende da te. Non dipendeva da me.

Ma - pensavo - se esiste una mia fragilità, posso provare ad agire su questa. L’azione altrui è fuori dal mio controllo e cercare di controllarla è foriere di altro dolore.


Allora ho trovato utile fare quello che spesso insegno durante l’ora di Raja Yoga: osservare quella ferita che sanguina, provare a isolarla, a vederne la portata.

Ho lasciato che la rabbia che mi era nata dentro come conseguenza del dolore, uscisse in maniera “pilotata”, cioè che non esplodesse fino al punto di causare altre ferite, ma che emergesse quel tanto per impedirle di sedimentare nelle mie viscere. Quindi ho affrontato la vertigine del gelo che quel dolore mi ha provocato, quel senso di vuoto.

In altri tempi lo riempivo parlandone con gli amici, uscendo, anche se niente poteva lenire quel dolore. Stavolta ho preferito tacere e proprio nel momento di maggiore desolazione è accaduto qualcosa che mi ha distolto dal pensiero del dolore. Già, perché spesso il dolore è associato a un pensiero, fino a identificarsi con esso, lo avevate mai notato?


Cosa è accaduto? Ho ricevuto una telefonata da una carissima amica di lunga data che mi esprimeva certi suoi interrogativi su alcune scelte di vita e così ho dovuto e voluto ascoltarla. Come quando nello yoga dimentichi di considerare i tuoi limiti e ti dedichi a un asana nella maniera in cui il tuo corpo te lo consente, mi sono dedicato mente, cuore e anima a questa amica. E mentre le parlavo ho avuto la netta consapevolezza che quella telefonata fosse un regalo, perché attraverso il mio semplicissimo e piacevole donare ho sentito lenire il dolore.


Il distacco, l’allontanarsi dal pensiero, il permettermi di lasciare andare quel vortice della mente, consente di uscire dalla sofferenza. Sì, perché la mattina dopo il turbine e la telefonata “salvifica”, qualcosa si era acquietato dentro di me. Quel senso di disperazione era sparito, e al suo posto era nata la consapevolezza arrendevole di non potere cambiare la realtà. Ho compreso che se resto focalizzato sulla mancanza e mi incaponisco in quel pensiero, perdo di vista i doni che la vita mi elargisce. Se fisso quello che non c’è più, non mi accorgo del nuovo che nasce.


Il processo alchemico che conduce all'uscita dal dolore si chiama «Yoga» e la chiave per innescarlo di chiama vairāgya: tradotto come «distacco», non attaccamento, più specificamente vairāgya indica una “perdita di colore”, una trasformazione della sostanza che ci tiene legati ad essa. Il processo interno fa sì che il dolore perda di colore, di intensità, si affievolisca fino a sparire. Un dono dello Yoga.


Vi ho raccontato quello che accade a me, forse servirà anche a voi.


Molti penseranno che alcuni sono più sfortunati di altri, che sono più ricchi, pieni di affetti, senza malattie. Che per loro è facile. Ma quello di cui sono convinto è che la vera sfortuna è non accorgersi del poco o tanto che si ha.


Ho sempre nel cuore mia nonna, nata povera, orfana di padre a 10 anni, operaia, due guerre mondiali nelle viscere, vedova a 54 anni, infine pensionata con la “minima”: era felice perché sapeva godere di tutto quello che la sua esistenza le aveva donato. Aveva sofferto tanto, provava momenti di malinconia, certo, come tutti, ma bastava poco per farle spuntare un sorriso, il più bello che la mia infanzia ricordi.

Penso al mio amico Carmelo Labionda che è scomparso proprio qualche giorno fa e al funerale la compagna raccontava che è riuscito a farsi delle risate fino all’ultimo, che ha cercato sempre «qualcosa di positivo» e che in una malattia che non lasciava speranze ha mostrato un coraggio incredibile.


La vera sfortuna è non accorgersi di quello che si ha.

Non accorgersi che talvolta i colori del tramonto possono diventare quelli dell’alba.

Nel cielo infuocato, due alberi formano una “freccia” e sembrano indicare una possibile via di uscita.

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