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  • Immagine del redattoreGloria Vizzini

È questo il momento per imparare la gentilezza

Aggiornamento: 20 apr

L’uso dell’insulto in politica, se da un lato può essere utilizzato come strumento di provocazione e, talvolta, di intrattenimento, dall’altro solleva importanti questioni sulla natura stessa della democrazia e del dibattito pubblico. Questa pratica, sebbene non nuova, ha assunto forme sempre più evidenti nel contesto attuale, riflettendo una tendenza, come nota Federico Geremicca, che va dal “celodurismo” di Umberto Bossi al linguaggio violento introdotto da Grillo.



Sembrerebbe che a molti italiani l’insulto piaccia. Nell’ottica del dare al popolo ciò che vuole, questa pietanza viene offerta, e volentieri.

Un esempio è quello in cui Vincenzo De Luca ha replicato a  Meloni, che lo invitava a lavorare invece di manifestare a Roma, dicendole: «Stronza, lavori lei». Alle volgarità nel dibattito tra i partiti cui siamo, purtroppo, abituati, in questo caso s’aggiunge che lo scontro ha visto coinvolte due figure istituzionali in carica: la Presidente del consiglio e un Presidente di regione. Personalità istituzionale che attacca con il turpiloquio una rappresentante delle istituzioni. Gli insulti, in questo come in altri casi, possono ostacolare la ricerca di soluzioni condivise ai problemi complessi. De Luca ha fatto notizia, ma forse ha indebolito le ragioni della protesta contro l’autonomia differenziata.

 

Tuttavia, per comprendere appieno l’uso dell'insulto in politica, è utile osservare le pratiche degli antichi romani, che spesso si scambiavano insulti senza pietà durante le loro dispute pubbliche. Lo storico tedesco Martin Jehne, professore di Storia antica all’Università di Dresda, in occasione di un convegno svoltosi a Monaco sulle Divided societes, ha ricordato quanto l’ambiente politico romano fosse già allora molto duro, ma allo stesso tempo quanto i Romani “di città” fossero orgogliosi della loro verve tagliente, considerata un tratto distintivo della loro urbanitas contrapposta alla rusticitas dei campagnoli. «Quando hai subìto abusi, hai sopportato e, se possibile, ti sei vendicato», chiosa Jehne.


Lo storico cita poi l’esempio emblematico di Cicerone e Clodio, due figure di spicco del I secolo a.C.. Le loro discussioni, caratterizzate da insulti e provocazioni di ogni genere, non erano semplici scontri personali, ma riflettevano le profonde divisioni politiche dell'epoca e influenzavano le dinamiche della repubblica. In un’orazione, Cicerone accusa Clodio di incesto con la sorella e pronuncia una battuta con cui finge di confondere il grado di parentela tra Clodia e il fratello Clodio, definendo quest’ultimo marito (Pro Caelio, 13, 32: «Mulieris viro, fratre volui dicere: sempre hic erro»: «il marito di questa donna, volevo dire il fratello: mi sbaglio sempre»).


Un altro esempio significativo è quando Cicerone chiama Cesare "Reginetta" alludendo a un pettegolezzo di molti anni prima secondo il quale si sarebbe concesso al re di Bitinia Nicomede in cambio di un accordo favorevole a Roma. All'accusa che voleva essere infamante, il condottiero risponde ricordando che il fatto di essere donna non impedì a Semiramide di essere una grande condottiera. Ma la "chiacchiera " rimase. Il ricordo della relazione tra Nicomede e Cesare si conserva perfino nel carmen triumphale intonato dai legionari cesariani nel 46 quando Cesare celebra il trionfo sulle Gallie. È uno dei rarissimi testi di questo genere che ci sono conservati, grazie a Svetonio:

«Cesare ha sottomesso le Gallie, Nicomede Cesare. Ecco, ora trionfa Cesare, che sottomise le Gallie, mentre non trionfa Nicomede, che pur sottomise Cesare».

Questi episodi illustrano chiaramente come le invettive non siano solo manifestazioni superficiali di rivalità personale, ma piuttosto elementi cruciali nelle lotte per il potere e nell'evoluzione delle dinamiche politiche.

 

Sembra che il desiderio di attaccare offendendo sia una caratteristica umana quasi innata. L’insulto è un modo per esistere, per essere notati. Come se non ci si rassegnasse all’idea che la vita è un susseguirsi di luci e ombre, gloria e oblio. Tuttavia, anche se assuefatti, certamente avviliti, non siamo ancora piegati all’idea che le cose debbano per forza andare in questo modo. Potremmo comunque decidere – come individui e come comunità – quando è troppo. Forse non saremo in grado di eliminare del tutto l’impulso a insultare, ma siamo ancora in grado di denunciare comportamenti inaccettabili e di sostenere un dibattito pubblico più civile e costruttivo, dove le idee e le proposte possano essere discusse in modo aperto e rispettoso. Invece di concentrarci sugli attacchi personali e sull'offesa, dovremmo promuovere un maggiore rispetto nel dibattito pubblico e incoraggiare atti di gentilezza, di gioia, di entusiasmo.




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