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  • Immagine del redattoreFranco Acquaviva

Dal teatro alla vita, così il silenzio trasforma il nostro mondo

In un quaderno che mi è stato fortunosamente recapitato dentro a un grosso pacco contenente alcuni vecchi libri (tra cui un’edizione delle Ultime Lettere di Jacopo Ortis, un libro di Achille Campanile e una biografia del Buddha), lascito inaspettato di un lontano zio recentemente scomparso, si poteva leggere, nelle ultime pagine, scritto a mano, con calligrafia minuta ma chiara, il testo che riporto di seguito.


Non so a che cosa si riferisca, se a un’esperienza realmente capitata a quello zio, o se fosse un appunto per qualcosa di più complesso, come un racconto o un romanzo. Posso solo dire che il resto del quaderno è perfettamente intonso, ogni pagina assolutamente bianca. Solo, alla fine, ci si imbatte in queste due paginette manoscritte. Anche di questa strana circostanza non saprei proprio che cosa pensare, tenuto conto del fatto che, aggiungendo stranezza a stranezza, il suddetto zio, lungi dall’essere morto, è semplicemente scomparso senza lasciare tracce.

Premesso questo, offro senz’altro al lettore la brevissima e alquanto bizzarra storia che vi è in esse riportata.

«E venne il giorno in cui misi in scena un lavoro molto particolare. Fin dalle prove mi era sembrato che ci fosse qualcosa di strano in quel testo. Sentivo che il ruolo mi apparteneva, ma allo stesso tempo qualcosa mi inquietava. Poi arrivò il giorno della prima. Chi avrebbe mai potuto immaginare una cosa del genere? Entrai in scena per cominciare il primo monologo e dopo la prima frase mi bloccai. Poi ripresi, mi infervorai... Ma ecco di nuovo ripresentarsi il blocco. Ripresi ancora e riuscii ad arrivare fino in fondo, per quella sera. Il giorno dopo le pause aumentarono. Il terzo giorno arrivai a metà. Il quarto mi bloccai dopo la prima scena. Il quinto non riuscii ad aprire bocca. Stavo davanti agli spettatori, muto.

La cosa strana è che non sentivo alcuna urgenza di uscire di scena. Semplicemente stavo là, fermo, a guardare il vuoto.


Intorno a me gli altri attori mi interrogavano con le loro battute, ma io non rispondevo. Di replica in replica gli attori cominciarono a non entrare più in scena. Rimanevo da solo a reggere la mia assurda presenza per più di un'ora... Tuttavia c'era qualcosa che mi spingeva a salire tutte le sere sul palcoscenico, e – cosa ancora più assurda – questo “fenomeno” della scena muta, della durata di un intero spettacolo, di un attore che rimaneva per giunta perfettamente immobile, attirava sempre più pubblico.


I critici più importanti scrissero che neanche Beckett aveva mai osato tanto. Il pubblico piangeva in sala. Qualcuno ne usciva sconvolto. Qualcun altro parlava di yoga, di meditazione. Altri ancora di “violento scossone alla Società dello Spettacolo”. Fiorirono spettacoli di giovani gruppi nei quali gli attori si limitavano a stare muti e immobili in scena. E anche loro ebbero un certo successo. La televisione trasmise il mio spettacolo in diretta. Qualche critico, il giorno dopo, scrisse che il silenzio aveva fatto finalmente irruzione alla Tv. Gli ascolti furono altissimi.


La gente all'inizio alzava il volume dell'apparecchio perché pensava ci fosse un problema tecnico. Poi si abituò a quel silenzio e continuò a compiere le sue faccende dimenticandosi del programma. Il problema fu un altro. Che da quella sera molti evitarono di accendere la Tv e la televisione pubblica ebbe un tracollo impressionante nel numero di spettatori...».


Foto di Dean Moriarty da Pixabay.


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