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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

Meditare non fa l'effetto del Tavor: è molto meglio

La fatica non ci è mai scontata. È una realtà che non fatichiamo a tenere a mente. Me lo ripeto spesso, ogniqualvolta chiedo alla pratica, allo yoga, alla meditazione o ai lampi di devozione di fare un pezzo di strada al mio posto. Non è possibile. Mai. Ho scritto qualche settimana fa che i miracoli esistono, ma non bisogna farci conto. È così sempre.


È inutile illudersi che intraprendere un percorso spirituale o di ricerca (che è la stessa cosa) sconti le fatiche, gli inciampi, gli errori, le disavventure, le sofferenze, la tristezza, la nostalgia, la gelosia, la rabbia, i disamori, e neppure le multe, le tasse o le malattie. Ci tocca combattere proprio come fece Arjuna nella Bhagavad-Gita: cito il guerriero dell’epica indiana perché - secondo il racconto - al suo fianco combatteva nientemeno che Dio in persona il quale, a parte incitarlo a combattere, non ha mosso un dito: si è limitato a guidare il suo carro. Punto.

Una bancarella di Rishikesh: sul muro uno Shiva di buon auspicio.

Esiste da sempre e ovunque un rapporto distorto con la religione, un affidarsi che è un tentativo di mettere il nostro fardello nelle mani ipotetiche di una divinità o di un santo. La superstizione è il sentimento non-religioso più diffuso e cambiano solo nomi e le pratiche, ma di fondo rimane che chiediamo sempre al soprannaturale di fare un pezzo di strada per noi.



Accade anche con la meditazione. Ti siedi ogni giorno per mesi, per anni, e scopri che non ti vengono scontati i problemi. Ci si potrebbe anche scoraggiare. Ma cosa sarei oggi senza questa pratica apparentemente “inutile”? “Risolvere i problemi” è il vero obiettivo della mia pratica? Il fine non è invece una sottile evoluzione interiore?


Ma se è così, perché è così difficile decidersi a iniziare questa pratica?

Ecco 6 (tra i tanti) possibili motivi:

  1. La pigrizia, certo.

  2. L'indolenza, pure.

  3. L'illusione di avere davanti l'eternità e di potere iniziare «più avanti».

  4. Quando stiamo bene, pensiamo di non averne bisogno.

  5. Oppure sosteniamo di meditare già quando passeggiamo o guardiamo un tramonto.

  6. Infine «inizieremo sicuramente quando riusciremo a fermare un po' il frullio di pensieri nella testa». Cioè mai.

Eppure la meditazione è la tecnica segreta svelata da Patanjali nel Sutra 2,11 di Yogasutra, per eliminare le cause della sofferenza. Nientemeno. Può una tecnica per quanto complessa avere davvero questo effetto? Non è proprio così semplicistico.

Una foto rubata: l'angolo di meditazione in un negozio di San Francisco ad Haight Asbury.

Lo spiega bene Swami Vivekananda nel suo commento al Sutra 2, 11: «Proseguirete a praticare la meditazione per giorni, mesi e anni, finché sia divenuta un’abitudine, finché sopraggiunga a dispetto di voi stessi».

Pardon?

Come può sopraggiungere una pratica?

Non può.

Quindi l'arcano si spiega in un solo modo: «meditazione» è un unico termine per descrivere due fatti diversi e cioè la pratica del sedersi in silenzio a respirare (e finora abbiamo parlato di questo) e dyana lo «stato» di meditazione secondo lo yoga. Ecco perché «sopraggiunge», perché lo stato mentale profondo può solo accadere, non si può provocare volontariamente. Però lo si può favorire esercitando il distacco, la pratica costante e l'abbandono al divino. Ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, per lunghissimo tempo, fino a cadere all'interno di sé.


Ma, nell'attesa che la vita ci elargisca questo dono, tutti noi mortali dobbiamo sapere che anche dopo anni di pratica meditativa, i pensieri continuano a frullare nella testa e abbiamo la sola possibilità di lasciarli andare, ogni giorno di più, un giorno sì un giorno no, come riesce o non riesce.

E sapete perché? Perché donne e uomini sono fatti così. È il nostro destino e possiamo solo iniziare un percorso senza avere la certezza di ricevere la grazia di terminarlo, cioè di fonderci con l'Infinito là dove ogni dolore e ogni difficoltà perdono il loro peso. Le certezze di riuscita lasciamole ai venditori di miracoli.


Sedersi ogni giorno in silenzio a respirare (leggi = la pratica di meditazione) serve a indagare, osservare, trattenere e lasciare andare, è un moto perpetuo interiore che non sarebbe possibile senza quel gesto quotidiano di fermarsi e respirare. Meditare non è un Tavor, non ha un effetto immediato, occorre perseveranza e pratica continua, ma il “risultato” possibile, piccolo o grande che sia, è a lungo termine.

Questo, nessun tranquillante potrebbe mai offrirlo.

Da un gesto costante, nasce una sottile differenza di percezione della difficoltà o del dolore che porta il reale cambiamento nella vita.

E l’unico effetto collaterale è una gioia che non avevamo mai incontrato prima.


Foto di John Hain da Pixabay.











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