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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

E se dio fosse davanti ai nostri occhi chiusi? (Cronaca di un viaggio sul Gange)

Aggiornamento: 18 gen 2023

Sono stato nella Terra bagnata dal Gange, nel cuore dell’Induismo che là si chiama Sanatana Dharma, Legge eterna. Haridwar, uno dei centri in cui si celebra la Kumbh Mela, Rishikesh, la terra di Sivananda e di Babaji (oltre che dei Beatles), e soprattutto la città che ha tre nomi, Varanasi, Benares e Kashi, la porta del paradiso e la bocca dell'inferno, la fine del mondo e l'inizio di tutto. Nella terra in cui tutto è memoria, dove le regole sono quelle della tradizione e non quelle del rispetto per le norme civiche, per l’ambiente, per le donne.

Dove il contatto con ciò che possiamo definire Dio è così stretto da incarnarsi in un fiume come il Gange, la madre, o lo Yamuna un affluente che bagna la Betlemme di Krishna, Vrindavan.

Sopra: l'Aarti (il rito mattutino e serale) sul Gange (da sinistra) a Hardwar, a Rishikesh e a Varanasi.


Dove Dio è nel quotidiano perché a lui si rifà tutto, la fortuna, il matrimonio, il successo, la ricchezza. Dio è causa e “scusa”. Nel Paese dell’apparente assenza di Dio, dove la miseria avrebbe bisogno di un termine più consono per essere descritta, tutto si rifà a lui che assume mille volti e 33 milioni di nomi per definire l’indefinibile.


Lì ha camminato il Buddha e non sembrerebbe nemmeno, se non a Sarnath, luogo dove espresse le Quattro nobili verità che rappresentano l’essenza della sua dottrina, se tale possiamo chiamarla: la sofferenza esiste, la sofferenza ha un'origine, la sofferenza ha una fine, esiste una via che porta alla fine della sofferenza. Anzi, se nomini Buddha a un induista vi dirà che è la nona incarnazione del dio Visnu. Se è gentile vi tacerà il fatto che è considerato un eretico. Per ritrovarlo “illuminato” devi andare in Ladakh e in pochi altri luoghi.


Sopra: a sinistra, lo stupa di Sarnath che ricorda il luogo in cui il Buddha pronunciò le Quattro Nobili Verità;

al centro, un Buddha nel tempio lì accanto; a destra, il Buddha reincarnazione di Visnu in un tempio di Orchaa.


Dio e la Sofferenza sono il codice binario che dà vita a ogni gesto. Dio è nella sofferenza e la sofferenza in Dio. Ma chi e cosa sia questo Dio non è definibile, e difatti lo incarnano in mille volti e altrettanti nomi impronunciabili. Per noi occidentali ne riassumono tre, Brahma, Visnu e Shiva, ma i più colti citano il Brahman, l’universo che tutto racchiude e che per noi che indaghiamo lo yoga è forse l’unico raggiungibile a livello intellettuale.

Nella terra degli Aarti sul Gange, dei balli degli Hare Krishna e dei Veda, ho toccato con mano che la religiosità fa rima con superstizione e che, ancora di più, tutto quello stride con gli scimmiottamenti che facciamo qui in Occidente, con le imitazioni di puja, di riti, di mantra.


Cosa ha senso allora qui in Italia per noi occidentali affascinati dalla spiritualità indiana? Qual è l’essenza da coltivare e da indagare?

Ha senso indagare ciò che l’India rimanda alla nostra tradizione e alla nostra cultura, perché lì si trovano i segni di mille contaminazioni. Ha senso aiutarci con il percorso psicologico di Patanjali, con l’indagine di un buddhismo che comunque è già ben radicato nel nostro Paese, ma anche con la psicologia sottile della Bhagavad-Gita. Noi che, comunque, abbiamo gli strumenti per leggere il tutto senza timore, con lo sguardo di europei aperti al mondo e alle culture, possiamo permettercelo senza cadere in derive New Age.


Perché quello che indaghiamo è un’uscita possibile dalla sofferenza, uno sguardo all’interno di sé per cercare un Sé che sfugge perché, forse, è già fuso col Tutto. Cerchiamo il contatto col respiro perché questo è il gesto più intimo che abbiamo sempre con noi. E poi chiudiamo gli occhi nella pratica “meditativa“ (senza dimenticarci che la meditazione è uno stato dell'essere) e davanti a noi, al centro tra le sopracciglia, vediamo solo un cerchio nero. Ma non somiglia al Lingam, il simbolo di Shiva (cioè di Dio), un uovo di color nero, adorato sulle rive del Gange?

Forse è solo un'intuizione, forse un illusione. O, forse, questa divinità che ci sfugge nella sua stessa immaginazione, è semplicemente lì davanti ai nostri occhi chiusi, in tutto il suo splendore nascosto. E non ce n'eravamo mai accorti.

Varanasi (India). Un sadu in preghiera davanti a un Lingam.


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