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  • Immagine del redattoreMario Raffaele Conti

«Dvesa», il nemico dell'essere umano che è nascosto nella nostra pigrizia

La sofferenza è un argomento troppo serio per essere banalizzato. Lo yoga ne parla in modo molto serio, ma spesso il livello di serietà è così alto che si finisce per travisarne il senso e quando si parla di sofferenza si pensa ai fatti importanti, gravi e che ci riguardano – grazie al Cielo – poche volte nella vita. Invece il concetto di sofferenza di cui parla Patanjali in Yogasutra, è molto più complesso di quel che sembri e riguarda molto da vicino la nostra vita quotidiana, il nostro modo di essere e di fare, la predisposizione, l’abitudine.


Di solito sfuggiamo alla sofferenza. E chi potrebbe dire che non sia una cosa buona? Però… c’è un «però». Seguite il mio ragionamento, se volete.

«Dvesa» è la quarta causa del dolore e dell’infelicità, il quarto klesa, di cui Patanjali parla nel Sutra 8 del secondo capitolo. Traduce Swami Satyananda Saraswati: «Dvesa è la repulsione che accompagna il dolore»; non è l’opposto di raga (la ricerca ostinata del piacere, l’ossessione per il piacere, la dipendenza emotiva e psicologica dalla ricerca continua del piacere), spiega, ma raga e dvesa «sono due aspetti della nostra mente». Si cerca il piacere e si sfugge alla sofferenza. Il che è un comportamento sano.


Il problema sorge quando non si può sfuggire alla sofferenza. Quando la vita te la impone. Dvesa è l’avversione che si prova quando si sperimenta dukkha. Sappiamo che non è corretto tradurre dukkha con «dolore»: è piuttosto un disagio, una dissonanza, la discordanza, l'attrito (questa la traduzione corretta) del contatto tra la realtà e l’immaginazione della realtà, tra una visione retta e una distorta. Come facciamo sapere se la realtà che pensiamo reale è davvero reale o è invece distopica? Qui entriamo nel terreno di Philip K. Dick che è poi il terreno dell’indagine senza fine e forse senza soluzione, come quando ci troviamo nella galleria degli specchi al Luna Park. Ma l’indagine vale la pena di essere fatta, perché intuire anche solo un barlume di questo concetto ci apre a infinite possibilità di comprensione reciproca, sociale, relazionale, ci apre al non-giudizio e a quel mistero che si chiama «amore».


Insomma, con Dvesa Patanjali ci consiglia di cambiare punto di visione per togliere una sofferenza mentale alle sofferenze reali. Patanjali è un alleato, non un giudice, propone solo una via per realizzare l'Universo in noi. E non è un gioco facile fare i conti con dvesa perché qui siamo a un passo dalla soluzione dell’enigma esistenziale delle cause del dolore e quando ci si trova in una situazione non comoda, faticosa, una malattia, una crisi, be' lì abbiamo poche possibilità: disperarci e abbatterci o osservare come noi reagiamo e studiare come poterne uscire, quale soluzione adottare; soccombere o accettare vivendo, vivendo e ancora vivendo. Fin che si può.


Siamo ancora vittime degli opposti? La risposta ovviamente è «sì». E allora è qui che inizia il lavoro. Senza banalizzare, ritengo che «dvesa» contenga un campo sul quale potremmo lavorare facilmente prima di affrontare il vero dolore. Nel sutra 31 del primo capitolo, Patanjali spiega che malattia, depressione, stress acuto (tremore), dolore e respiro irregolare sono degli impedimenti allo yoga. Ma nel sutra 30 dice che la pigrizia è un nemico dello yoga, assieme a una serie infinita di “vizi” ai quali abbiamo fatto l’abbonamento premium: «indolenza, dubbio, temporeggiamento (eccolo!), brama di godimento (eh be'…), percezione erronea (parla di Internet?) incapacità di raggiungere una condizione migliore (e impegnati, suvvia!), instabilità (dice a me?)»...


Ebbene, riflettendo a lungo sul senso di dvesa nella nostra vita, ho avuto l’intuizione che questo klesa sia il padre del più grande impedimento della nostra vita: la pigrizia.

«Adesso non ho voglia, lo faccio dopo». Quante volte in una giornata diciamo questo? Io almeno dieci. La pigrizia non è una sorta di “repulsione” alla scomodità, al distoglierci da un momento di piacere? «Ci penserò domani, in fondo domani è un altro giorno», pronunciamo con Rossella O’Hara, ma il significato è diverso da quello dell’eroina “sbagliata” di Via col vento.

Tendiamo a rimandare, ad allontanarci da ciò che sarebbe utile per noi e per gli altri, ma non siamo gatti che devono dormire tante ore al giorno, in questo modo accumuliamo solo punti per una possibile infelicità futura.

Difatti il Sutra 15 del secondo libro ci conferma che il piacere e il dolore sono entrambi dolorosi. E ci sono molti fattori che entrano in gioco, dice Yogasutra:

1) La trasformazione, il cambiamento, è una sofferenza.

2) L’ansia per la paura di perdere ciò che sappiamo essere instabile è una sofferenza.

3) L’abitudine alla felicità e al benessere e la paura di perderli è una causa di sofferenza.

Ma non solo. Swami Vivekananda traduce il Sutra 8 di cui abbiamo parlato, in questo modo: «Avversione è quanto si sofferma sul dolore». Commenta Swami Shankarananda nel suo libro su Yogasutra: «Annegati nei problemi, sopraffatti dall'amarezza e dalla sofferenza, a volte non si può più sopportare tale condizione. Ci si attacca al dolore e gradualmente si diventa nemici di se stessi. (…) Ci sono persone che nella maggior parte delle situazioni amano rimanere nel dolore, celebrandolo anche, (...) e si consumano giorno dopo giorno».


Allora ci sono diversi nuovi elementi su cui ragionare.

1) C’è un attaccamento anche al dolore. L’altro giorno un signore quasi ottantenne mi diceva che non sopporta i suoi coetanei che iniziano a parlare delle loro operazioni e dei loro problemi di salute. Si può vivere per rivivere il dolore, parlarne fino a esaurirsi. Oppure no. Lo yoga parla di questo quando parla di raga e dvesa. Attaccarsi al piacere e attaccarsi al dolore.

2) La celebrazione del dolore. Ci sono vite vissute sotto il totem di una persona morta che è rievocata continuamente (e con essa la perdita). La perdita è una causa del dolore e finché non c’è un “riempimento” questa perdita svuota l’anima. La perdita è lo scandalo della vita, è l’effetto della trasformazione, è lo choc incomprensibile e incalcolabile. Ogni giorno perdiamo un giorno di vita e quando arrivi a certi traguardi è molto chiaro. Puoi scegliere se diventare nemico della tua stessa vita o gioire per ogni trasformazione, anche dolorosa, che avviene. Il mio amico Carmelo Labionda davanti alla recidiva che lo stava portando al suo ultimo giorno a un certo punto ha detto: «Ci sarà pure un lato positivo in tutto questo». E quando capì l’assurdità della sua riflessione è scoppiato in una grande risata. Nell'amarezza, lo aveva trovato.

Osservare è la nostra opportunità di studenti yoga, di yoga sadhaka. Andare avanti, cavalcare la trasformazione ogni istante. Perché se la fine del piacere provoca rabbia, la sofferenza dà origine all’odio, all'invidia, alla gelosia. L’odio per la vita, per la socialità, per le relazioni. E per la gioia degli altri. Non possiamo farci questo.

Quanto siamo lontani da accettare raga e dvesa lo vediamo sul tappetino che è il banco di prova del nostro grado di realizzazione del Sé, il luogo in cui osservare il conflitto costante nella nostra mente a livello conscio e inconscio. Anche in un ricercatore spirituale, sì. Ma arrivare a osservarlo e ad accorgersene è un buon inizio. Il resto è vita.

Solo ai gatti come la Sally (che purtroppo non c'è più) la pigrizia non dava dolore.


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