La violenza di genere, gli ex compagni assassini e il vuoto di coscienza
La battaglia contro la violenza di genere somiglia sempre di più al mito di Sisifo. Sembra proprio che noi donne siamo condannate a spingere un enorme masso fino alla sommità di una montagna per poi vederlo rotolare giù e dover ricominciare da capo. Personalmente non ne posso più di vedere fiaccolate, manifestazioni e scarpette rosse sulle scalinate. Di retorica e frasi di circostanza. Di sentire consigli su come le donne debbano comportarsi per ridurre i rischi di essere stuprate.
Nel film del 1968, La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, il fidanzato di Rosalia rompe l’impegno matrimoniale sentenziando che la ragazza non avrebbe dovuto andare in farmacia, esponendosi così al rapimento e alla successiva violenza. Sono passati 55 anni e i fatti delle ultime settimane evidenziano quanto certi modi di pensare così retrogradi siano tragicamente attuali, e quanto sia ancora dura la buccia del patriarcato versione due punto zero.
Sono morte per atti violenti 79 donne dall’inizio dell’anno.
Cosa stiamo facendo a livello istituzionale per affrontare questa piaga? Un decreto legge che rafforza gli strumenti di prevenzione, protezione e repressione giace inascoltato da ottobre 2022. Il governo, attualmente, preferisce contenere il dilagare dei fenomeni di violenza e sociopatia attraverso l’inasprimento delle pene: più anni di carcere, più sanzioni amministrative, riduzione dei limiti di età per essere giudicati colpevoli di certi reati, castrazione chimica. Insomma la tipica reazione law and order. Che però non serve a niente perché la violenza sulle donne è un problema culturale.
Uno che decide di uccidere una donna non sta a pensare alla galera che si farà, uno che stupra non pensa, non ragiona. Non ha il senso del limite, non riconosce l’altro, è immerso totalmente nel suo ego malato (quello che la filosofia yoga chiama asmita), elevato all’ennesima potenza. In quel momento ha ingaggiato una sfida secondo cui deve dimostrare certe cose, a se stesso e al suo folle entourage. Non c’è alcuno spazio per l’etica, la morale, la giustizia. È tutto un inesorabile scattare di meccanismi che portano alla distruzione totale. Per queste persone non ci vuole più galera, ci vuole più Coscienza, più educazione sentimentale, emotiva, sessuale, civica. In mancanza delle quali ogni relazione assume i connotati del possesso, ogni rifiuto, ogni abbandono quelli della ferita narcisistica, impossibili da rimarginare. E allora scatta la violenza. Il gesto irreparabile.
Capiamoci, assassini e stupratori ci sono sempre stati, e le società li hanno sempre affrontati e giudicati coerentemente ai loro sistemi valoriali. Ma come si diventa assassini o stupratori o semplicemente violenti?
Cerco di darmi una risposta secondo quanto suggerisce uno dei primi, e grandi, conoscitori della mente umana, il padre della filosofia Yoga: Patanjali. Secondo il quale al vertice delle osservanze ci sta ahimsa: la non-violenza.
A parole siamo tutti “non violenti”. Nei pensieri e nei fatti siamo tutt’altro, come la vita ci dimostra quotidianamente.
La non-violenza non è affatto una cosa innata. È invece una cosa che deve, faticosamente, essere coltivata. In effetti tutti nasciamo violenti in quanto in tutti noi, per motivi karmici, sono attivi i klesa.
I klesa sono le cinque cause di afflizione, i motivi per cui ogni uomo, di ogni tempo e luogo, soffre e causa sofferenza. Sul fatto che si causi sofferenza agli altri non ci si sofferma mai abbastanza. Siamo sempre più concentrati sulla nostra personale sofferenza, che ci giustifica in ogni agito, perché il più delle volte siamo accecati da asmita. L’ego.
Patanjali li descrive minuziosamente i klesa: avidya, asmita, raga, dvesa, abhinidvesa. Spieghiamo in breve queste cinque parole sanscrite: essere totalmente identificati con l’ego allontanandosi dalla propria vera natura fatta di pura Coscienza, ricercare compulsivamente gratificazioni evitando responsabilità ed essere succubi della paura della morte.
I klesa sono gli elementi di base su cui occorre lavorare per costruire una coscienza che sia libera dai condizionamenti e possa evolversi. Non è possibile alcuna trasformazione se prima non prendiamo il toro per le corna e andiamo ad agire su questi meccanismi di base che compongono le nostre coscienze. Che non si aprono finché tutti quanti non ci mettiamo di fronte ai nostri limiti, ai nostri errori e alle nostre paure e decidiamo di gestirli.
Queste cose però non le possiamo sapere automaticamente. Se siamo cresciuti in un ambiente, povero o ricco che sia, che per mille motivi fa germogliare i kleśa senza che nessuna altra luce possa farsi strada, siamo spacciati. Per questo c’è bisogno di maestri, di educatori, di guide. Sia per i ragazzi sia per i genitori. Altrimenti qualsiasi rifiuto, o fallimento, ci fa perdere ogni riferimento, interno ed esterno. Altrimenti siamo prede degli istinti e non dei desideri consapevoli.
Viviamo in una società che giustifica, assolve, minimizza e considera accettabili tanti comportamenti che non lo sono affatto, che sposta l’attenzione sulle sanzioni anziché occuparsi di creare una cultura che sappia creare da sé gli anticorpi a questa degenerazione della concezione della figura femminile.
Il lavoro da fare è tantissimo e, per quanto sia difficile, dovremmo sforzarci di capire che assassini e stupratori sono anche essi vittime (mai quanto le loro vittime, sia chiaro) di una società - intesa come famiglia, scuola, istituzioni, ambiente - che non ha saputo fornire loro gli elementi di base necessari a gestire in modo funzionale sentimenti ed emozioni. È solo guardando attraverso lo specchio le origini della violenza che possiamo capirla e affrontarla.
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