È il 5 ottobre 1962, sessant’anni fa; viene pubblicato sul mercato inglese (l’anno successivo in Italia) Love Me Do, il primo singolo ufficiale dei Beatles. L’aveva composta qualche anno prima, nel 1958, il sedicenne Paul McCartney (pare una mattina in cui aveva marinato la scuola). La fece ascoltare all’amico John Lennon che contribuì a completarla.
Paul McCartney, John Lennon, George Harrison e Ringo Starr, sono quattro ragazzi ventenni che inconsapevolmente cominciano così a scrivere una delle pagine più clamorose della storia della musica contemporanea.
Si scoprirà nel tempo quanto le loro diverse personalità, artistiche e psicologiche, legate dal filo dell’amicizia e della creatività, dalla passione musicale e dal desiderio di cambiare e sperimentare abbiano creato l’amalgama per questa incredibile opera, compiuta in soli dieci anni, che si chiama Beatles.
Ne dà una lettura la neuroscienziata, musicista e studiosa dei Beatles Donatella Caramia. Che parte dall’India e da Jung: «Il numero quattro in India è il numero della stabilità. George Harrison ha messo in luce una grande apertura artistica unita a un elevato grado di misticismo. John Lennon ci ha lasciato un patrimonio d’ispirazione e poesia; Paul McCartney e Ringo Starr hanno svolto una funzione senza la quale i Beatles non avrebbero avuto quella stabilità. Sono le radici, che vediamo meno ma che ci governano. Quindi mettiamo i Beatles in un contesto junghiano: la quaternarietà come struttura stabile. Inoltre hanno trasferito nelle loro melodie una visione del futuro, intrisa di vibrazioni sonore e non solo che hanno avuto il potere di abbracciare il mondo per intere generazioni».
Nel 1962, l’anno di Love Me do, George Harrison ha 19 anni, il più giovane del gruppo. Deve competere con due figure forti e da “prima linea”come quelle di Paul e John che sono anche autori della maggior parte delle canzoni. George resta più in disparte mentre la voce della sua chitarra è sempre più personale e riconoscibile, s’incastra nella ritmica di John Lennon, e spicca in preziosi ricami e “soli”.
Il successo, come sappiamo, li travolge. E George sarà il primo a soffrire della “beatlesmania”, lui più introverso, fatica più degli altri a vivere perennemente sotto i riflettori, lo spaventa l’assalto dei fan, l’impossibilità di una vita normale.
Il culmine è il 15 agosto 1965 nella prima tappa del loro terzo tour americano allo Shea Stadium di New York: è la prima volta che un concerto rock si svolge in uno stadio. Ci sono circa 60 mila persone urlanti che coprono la musica e qualche rischio per la sicurezza. Alla fine di quella serata George esprime il desiderio di smettere di suonare dal vivo, in quelle condizioni non ne trova il senso. Inoltre ripetere le stesse canzoni per George è come «raccontare ogni volta la stessa barzelletta». Questa scelta, condivisa da John, nasce anche dalla sua visione della vita, dal suo viaggio introspettivo che trova specchio nella creatività e nella ricerca di nuovi orizzonti musicali e profondità spirituali.
I Beatles sono sempre interessati al cambiamento, alla sperimentazione, sono un faro per l’arte musicale. E lo sguardo a Oriente di George, l’India e la sua cultura, l’espressione musicale così lontana dagli stili occidentali offrono una nuova svolta al gruppo più famoso del mondo. George incontra l’India soprattutto dal contatto con Ravi Shankar, il più grande maestro di sitar, strumento che Harrison vuol imparare a suonare e introdurre nel sound dei Beatles. Dirà Shankar: «Ho la sensazione che nonostante la popolarità George abbia quel sentimento compassionevole nei confronti del prossimo di non dipendenza dal mondo materiale. Lui è alla ricerca di qualcosa di più elevato. È qualcosa di inusuale per un ragazzo di Liverpool diventato rockstar».
George Harrison è il primo, nella musica pop, a portare il suono del sitar in un disco. I Beatles gli aprono le porte per uno dei titoli di Rubber Soul: “Nowegian Wood”. Il timido George sta per dare il via a una grande rivoluzione culturale-musicale nei Beatles, diventa la guida delle nuove frontiere sonore che li porterà in India, nel 1967, dal Maharishi Mahesh Yogi.
È su questo percorso che arriva il capolavoro, per creatività e innovazione nel percorso dei Beatles: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. George, sempre più interessato alla spiritualità orientale, sempre più addentro nelle sonorità di quel mondo realizza un brano, Within You Without You senza il supporto dei Beatles, come segnasse già un primo distacco, ma con un gruppo di musicisti indiani. Il testo fa riferimento alla dottrina induista del Dharma, l’amore che può cambiare il mondo. E sulla copertina di Sgt Pepper’s, nel collage di volti famosi, Harrison sceglie quelli di alcuni guru, una linea che porta a Paramahansa Yogananda: Swami Sri Yukteswar, Lahiri Mahasaya, Mahavatar Babaji e, per l’appunto, Yogananda al quale Harrison è molto legato: «Leggere e rileggere le pagine del suo Autobiografia di uno yogi», ha detto, «è illuminante e ti fa crescere ogni volta. È come riconoscersi nelle sue parole».
Il suo cammino è sempre più segnato da incontri che lo portano verso Oriente e nell’ultimo tratto con i Beatles, sino al triste canto finale di Let It Be, George trova sul cammino gli Hare Krishna e il loro fondatore Bhaktivedanta Swami Prabhupada. Incide un album di canti devozionali induisti con un singolo, Hare Krishna Mantra che raggiunge sorprendentemente persino il primo posto nelle classifiche inglesi. Il messaggio di George Harrison, la sua credibilità trovano consensi nel pubblico che per la prima volta volge lo sguardo a Oriente.
La fine dei Beatles diventa la sua rinascita, un «the end» che è ben documentato nel film-documentario Get Back. La creatività di George, schiacciata dai due autori Lennon-McCartney, tranne pochi casi in cui la sua penna ha potuto firmare brani come Something, Here Comes The Sun e While My Guitar Gently Weeps, può finalmente esplodere.
«Alcune delle migliori canzoni sono quelle che non ho scritto ancora, e non ha neppure importanza se non le scriverò mai perché sono un niente se paragonato al grande quadro…». Le canzoni che «non avevo ancora scritto» invece arriveranno presto nel «dopo Beatles». In una in particolare, My Sweet Lord, George riesce a coniugare un canto devozionale con il sound di una canzone pop.
E l’album che la contiene, All Things Must Pass, esprime tutto ciò che Harrison aveva dentro da anni, parole e musiche che aspettavano di vedere il sole. In copertina il giardiniere George Harrison la cui vita terrena, che si spegne il 29 novembre 2001, sarà sempre più dedicata alla cura del suo giardino interiore.
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