I progetti, i sogni, i desideri, l'immaginazione. Il pezzo della scorsa settimana ha scatenato infinite discussioni tra gli amici: «Ma come, non ho diritto di immaginare, di sognare, di desiderare?»; Patanjali dice che sono sentimenti da eliminare per essere felici...: «Posso non essere d'accordo con Patanjali?». Eccome! Anzi, dirò di più, tutti noi viviamo ogni giorno negando il percorso di Yogaustra ed è proprio per questo che il testo scritto nel IV secolo dell'Era volgare è così attuale: perché ci conosce dall'antichità.
Questo aspetto dei testi della tradizione mi sconcerta: significa che siamo geneticamente fatti in questo modo dall'inizio dei tempi? A quanto pare sì. I pensieri vorticosi hanno angosciato i nostri avi, su fino al Medioevo, ai tempi di Dario il Grande, di Ramsete III, della battaglia di Kurukshetra. È per questo motivo, per questa abitudine radicata nel nostro pensiero, che non siamo d'accordo con nessuno dei saggi che ci consigliano di spostare il nostro punto di vista.
Non è un caso che lo Yoga come il Vedanta siano definiti proprio «punti di vista», (in sanscrito darshana), perché non sono rivelazioni nel senso religioso, ma rivelazioni nel senso psicologico. Cioè ti dicono: «Sei assolutamente libero di continuare a sognare a occhi aperti, a desiderare la Bugatti di Ronaldo o la Kelly di Hermes. Poi, se vuoi sapere se questi pensieri ti renderanno felice, be' questa è un'altra questione».
Difendiamo caparbiamente il nostro diritto all'immaginazione. Ma c'è differenza tra immaginare, immaginazione e sogno? Una grande differenza. Se io immagino, sto “vedendo” qualcosa che potrei realizzare domani: ho immaginato ieri, progetto oggi, realizzo domani. O comunque ci provo, m'impegno, m'ingegno. E se non riesco, cammin facendo scopro un'altra strada da percorrere. Mio suocero a 83 anni quando si sveglia ogni mattina immagina quello che vuole fare del suo orto, ma non lo “sogna”: esce, zappa, pianta e aspetta che il tempo dia i frutti. Ed è felice.
Se immagino agisco. La riuscita non è nemmeno centrale in questo ragionamento. Dice la Bhagavad-Gita che non dobbiamo preoccuparci dei frutti dell'azione, ma solo dell'azione (BG, 2,47). Meraviglioso. L'immaginazione invece è sterile, è il sogno a occhi aperti che è la dolce droga del pigro (chi non lo è?), è il sogno del traguardo immaginario e avulso dal reale, dalle nostre possibilità, dagli eventi, dalle nostre caratteristiche. È immaginarsi di potere scalare l'Everest senza essere preparati e senza possibilità economiche.
Detta in inglese con espressioni note, è la differenza tra «I have a dream» (M.L.King) e «dreamin'» (di tante canzoni).
Serve sognare? Sì, se trasformiamo il sogno in realtà (e scopriamo poi che la realtà ha un sapore diverso); no, se facciamo della nostra vita un elenco di nostalgici e romantici sogni. Il sogno (o sonno) è un altro dei pensieri vorticosi della mente stigmatizzati da Patanjali in Yogasutra (è curioso come pochissimi psicologi conoscano questo testo fondamentale per la conoscenza del funzionamento della psiche; fondamentale per l'arcaicità del documento, per la tradizione in cui affonda; così come andrebbero studiati nelle facoltà universitarie anche i testi buddhisti, che sono scienza della mente).
Sogno viene dal latino sŏmnium, derivazione di somnus «sonno», dice la Treccani. Quindi in primis si riferisce al dormire. Ma in senso figurato è «immaginazione vana, fantastica, di cose irrealizzabili, illusione, cosa vagheggiata con la fantasia». C'è il sogno americano, il sogno d'amore, i sogni della gioventù e chi più ne ha più ne metta. Belli, anzi bellissimi, ma totalmente avulsi dal reale. Non avete mai sognato un weekend con la fidanzata e poi, quando il weekend arriva, lo passate a litigare? Ecco.
Lo ammetto, talvolta sognare mi aiuta ad addormentarmi o a superare un'ora di tristezza, anche se recentemente sto barattando il sogno con altro. Sto capendo che questa immaginazione fantastica è una perdita di tempo anche prima di dormire e sto cercando di sostituirla con una pratica molto semplice: a occhi chiusi osservo il punto tra sopracciglia e resto lì nel respiro mentre cerco di rilassare. Senza attendermi nulla. «Cosa cambia?» direte voi. Cambia. Ma ognuno deve fare la sua esperienza, deve capire sulla propria pelle cosa svuota e cosa riempie, cosa arricchisce e cosa impoverisce, e poi trarne le conseguenze in maniera responsabile.
Una volta una mia amica andò da un'avvocata per un consulto e le raccontava il suo disastroso rapporto col marito dal quale voleva divorziare. «Sa, anni fa sognavo di salvarlo...», le disse. E l'avvocata: «Si ricordi bene, signora, che ognuno si può salvare solo da se stesso. Sono 400 euro per il consulto, grazie». Quando sogniamo senza mettere i piedi nella realtà, si paga a caro prezzo.
Ma anche questa è esperienza, anche questo insegna, tutto insegna se siamo su un percorso di autoconsapevolezza. Quindi cosa dobbiamo fare? Tich Nhat Hanh 27 anni fa mi ha svelato il segreto della consapevolezza, della presenza mentale, di cui ero totalmente privo perché vivevo di sogni e mi arrabbiavo perché non si realizzavano. Scrive il Maestro vietnamita in Il miracolo della presenza mentale (Ubaldini): per praticare la presenza mentale «concentratevi su quello che state facendo, siate vigili e pronti a gestire ogni possibile situazione con abilità e intelligenza (...) Non vedo perché la presenza mentale dovrebbe essere qualcosa di diverso dal concentrare tutta la propria attenzione sul compito del momento, essere vigili e servirsi al meglio dal proprio discernimento (...) Di solito si pensa che sia un miracolo camminare sull'acqua o nell'aria. Io invece credo che il vero miracolo sia camminare sulla terra».
Il sogno addormenta la mente e fa scorrere la vita sotto i piedi. E credo che alla fine dei nostri giorni ci siano due possibilità: scrivere sulla propria tomba «Ha sognato tanto» oppure «Ha camminato sulla terra». Sogno di scrivere la seconda...
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