Mario Raffaele Conti
Ecologia spirituale. C’è modo di superare l’insuperabile?
Aggiornamento: 22 ott 2022
Il problema vero nella vita quotidiana è quando il carciofo comincia ad avere il gusto del cavolo... Scusatemi, vado troppo in fretta. Questo esempio si rifà alla famosa Legge del Cavolo, legge secondo la quale se gusti un cavolo pensando che sia un carciofo... questo carciofo saprà sempre di cavolo. Fino al giorno del risveglio, quando si scoprirà che si è sempre odiato il cavolo.
Questo esempio ortofrutticolo mi è servito un sacco di volte per spiegare una condizione così frequente che in sanscrito si chiama avidya, nescenza, il non sapere, alla base della sofferenza umana. In senso stretto avidya è il non sapere che le cose mortali non sono immortali, che la finitezza appartiene alla natura, che perfino la mente si spegnerà, mentre è quel quid che sta alle spalle di tutto e che si intravede nei bagliori di intuizione che è eterno e che in India si chiama atman e in italiano è il «sé». Erroneamente l'atman si può anche tradurre con «anima», ma l'anima occidentale non è l'atman indiano: l'atman indiano è il sé. Che non è il sé come lo intendiamo noi... quello è l'ego. Insomma, la filosofia non è mai stata semplice e qui ci perdiamo. Sarà meglio ritrovarci.
Eravamo al cavolo e al carciofo.
Dicevo che il «logorio della vita moderna» è causato dalle aspettative mancate (sì, quello era proprio lo slogan dell'amaro a base di carciofo e quindi capita a fagiolo... Se non lo conoscete, guardatelo qui...).
«Non capisco perché lui/lei non parli appena sveglio/a»; «Perché ti ostini a torturarti le unghie?»... Gli esempi sarebbero molti e più che all'altro/a ci riportano a noi stessi.
Ci sono atteggiamenti che non sopportiamo e che nemmeno un percorso di ascesi potrebbero essere tolti perché fanno parte delle sedimentazioni karmiche, del Dna, dei vasana, delle abitudini assunte con e dopo il latte, con l'esempio quotidiano, con i sorrisi e i musi di mamma e papà. Rappresentano gran parte del nostro carattere, del nostro essere. Cioè sono modi di fare difficilmente estirpabili.
Se non li sopporti, non ti legare a lui/lei. Gli anni non li cambieranno, anzi, diventeranno ancora più insopportabili per te. Non possiamo cambiare le persone e neppure noi stessi, come ci illudiamo di poter fare. Se - come a me - ti danno fastidio i rumori, ti daranno fastidio sempre. Anzi, di più.
A meno che...
A meno che la pratica non entri così tanto nelle ossa, da rendere tutto e tutti «dono di Dio». Da rendere le sciocchezze così lievi perché il raffronto è l'eternità e non il contingente. E non nel senso filosofico, ma nel senso reale del termine. È lo stato di beatitudine prospettato dallo yoga e che taluni hanno provato come dono momentaneo nei mesi in cui s'inizia il percorso. Si sentono suoni, si vedono cose, si ha un distacco così naturale che nulla e nessuno ti tocca davvero. Si nutre solo un'infinita tolleranza e un senso di gratitudine. È il segno che lo yoga è andato a segno (ops).
Poi si torna sulla Terra e inizia il lavoro vero dell'aspirante yogin, lo yoga sadhaka, quale siamo tutti noi, esseri irrealizzati.
Ma chi ha provato “sa” che quello stato esiste e che con la via della pratica del silenzio quotidiano, della propria sadhana, delle letture dei Maestri, dello sguardo verso l'Infinito, non è una chimera, ma un dono possibile.
Un dono, non un certificato, né un diploma, né un'«appartenenza a», né un'iniziazione ad alcunché. Ecco, questo dono si può chiedere all'Universo, è ecologia spirituale, fa bene al pianeta. Sì, proprio un gran bel dono da chiedere...
