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  • Immagine del redattoreElia Perboni

Nomadi, il mio ricordo di Augusto 30 anni dopo

«7 ottobre 1992: muore nella sua casa di Novellara, in provincia di Reggio Emilia, Augusto Daolio, cantante e leader dei Nomadi». Le telescriventi (come si diceva una volta) battevano questa notizia 30 anni fa e per i fan del meraviglioso gruppo si apriva una ferita che non è mai rimarginata. In occasione di questo triste anniversario, Elia Perboni celebra quell'uomo e quell'artista straordinario che ha conosciuto bene.


L’etica e la morale sono tra i pilastri nella vita e nella convivenza tra gli uomini. Sono equilibri, valori difficili da mantenere saldi perché gli “umani desideri” tendono a spingere oltre. E c’è un filo che spesso lega, o forse è il prodotto diretto di etica e morale: il sociale.

Nei tanti incontri della mia vita professionale come giornalista, prevalentemente in campo artistico-musicale, ve ne sono alcuni, pochi, che hanno messo in luce queste caratteristiche.


Penso a un gruppo nato nella creativa Emilia nei primi anni Sessanta, nella famosa “era beat”, e ancor oggi attivissimo con lunghissimi tour e affollatissimi concerti nonostante sia raramente protagonista in Tv o sui giornali: i Nomadi, una bella storia italiana.


Per comprendere il loro successo senza lustrini, la loro filosofia di vita, l’attenzione al sociale, bisogna vederli, almeno una volta, sul palco. E vi accorgerete che lo spettacolo è il pubblico, l’empatia tra questi musicisti che qualcuno ha definito «operai della musica» e la gente. Loro ascoltano, da sempre la gente: ogni sera raccolgono fondi per nobili cause facendo puntualmente il resoconto, dal palco, di come vengono spesi, a chi vengono dati e quali sono le urgenze. Ogni sera leggono in diretta lettere, messaggi (in cartaceo) che il pubblico scrive loro e che consegnano sul palco assieme a tanti altri segni di vero affetto che vanno oltre la musica, magari anche una bottiglia di vino, come un amico che ti viene a trovare. E con il quale puoi fermarti a chiacchierare perché è così che succede dopo ogni serata: il dialogo.


È più, il loro, un concetto di raduno che di concerto tradizionale. Esibizioni che durano fino a tre ore, una festa che celebra sempre l’idea dell’incontro senza divismi. In sessant’anni di carriera hanno suonato ovunque, avrete visto i loro manifesti in piccoli paesi di montagna, nelle periferie, È così che i Nomadi hanno creato lo zoccolo duro del pubblico.


Mi racconta Beppe Carletti, fondatore assieme al compianto Augusto Daolio, nel 1963, dei Nomadi: «Non abbiamo mai accettato compromessi, abbiamo seguito la nostra strada e questo molte volte ci ha esclusi da molti canali commerciali. Abbiamo investito sempre sul bene più prezioso, il faro più luminoso: la gente comune. Condividiamo i pensieri, le difficoltà, le speranze delle persone che sono anche le nostre. Sentimenti che spesso si sono trasformati anche in canzoni. Siamo fortunati, privilegiati a fare questo lavoro e il nostro pubblico non è virtuale, è reale, lo sentiamo respirare ogni sera. Siamo sempre stati anche un’azienda, siamo dei professionisti, la musica è la nostra passione, ma anche il nostro mestiere. Ma la nostra è un’azienda particolare nella quale il bilancio sociale vale di più di quello economico».

Nei primi anni Sessanta i Nomadi danno voce a un autore sconosciuto, Francesco Guccini. È lui a scrivere per loro Dio è morto. La Rai democratico-cristiana dell’epoca censura la canzone, la ritiene blasfema. La Radio Vaticana invece, che ne comprende il senso profondo, la manda in onda («ai bordi delle strade Dio è morto/nei campi di sterminio Dio è morto…», recita il testo).



I Nomadi diventano scomodi nei grandi mezzi di comunicazione e per certe case discografiche. Non sono allineati, anche se toccano spesso picchi alti di popolarità e le cime delle classifiche (Un pugno di sabbia, Io vagabondo…).




Le scelte, la linea artistica vengono sempre condivisi da tutto il gruppo che negli anni ha vissuto anche momenti di grande difficoltà e dolore. Il più grande tocca certamente la morte, il 7 ottobre 1992, di Augusto Daolio, la voce indimenticabile e il co-fondatore con Beppe Carletti del gruppo. Che ricorda: «In quel momento non sapevo se continuare. Mi era venuto a mancare il più grande amico, diverso da me, ma sempre assieme nel desiderio di andare avanti, di superare momenti difficili, nella fatica. Poi si è deciso di proseguire, il pubblico ce lo ha chiesto».


Nell’estate del 1992 ero tra gli autori per Raidue di una riedizione dello storico Cantagiro. Tra i tanti artisti in gara c’erano i Nomadi. In quell’occasione parlai diverse volte con Augusto; ricordo la sua lunga barba, una sorta di basco in testa, e una macchina fotografica a tracolla: catturava immagini, lui pittore e attento osservatore di ciò che lo circondava. Ricordo la sua gentilezza e disponibilità, la sigaretta in bocca. Ricordo anche che tutta la band quand’era riunita stava un po’ in disparte, al ristorante in un tavolo separato. Non comprendevo. Ho capito solo qualche mese dopo, quando Augusto Daolio se ne andò per sempre, che cercavano di proteggerlo, di non dire nulla della sua grave malattia per lasciarlo salire sul palco sereno sino a quando era possibile, perché per lui cantare era vivere.


Sono passati trent’anni e solo ora Beppe Carletti ha trovato la forza per scrivere una canzone dedicata al grande amico, Il segno del fuoriclasse: «…ed il ricordo si fa leggero/ Se ti rivedo in ogni angolo del cielo/ In fondo a un sogno /Dentro a un lampo/ Nei ragazzini che si affacciano sul palco…». Per sempre Nomadi.




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